Bitta:
Spazio:
Tempo:
Il tempo massimo di regata è di 72 ore tra la data 1 Dicembre e la data 31 Gennaio.
Mezzo:
Parole scritte. Minimo massimo battute spazi esclusi
Visibilità: Pubblico
Boa 1:
Luce
Boa 2:
Musica
Boa 3:
Una sorpresa
Equipaggio
AUTORE: Bipi
TITOLO: Chicco
AUTORE: BluePanda
TITOLO: Inverno a Étretat, ovvero Storia di un Capolavoro
AUTORE: boulevard
TITOLO: Un giorno diverso
AUTORE: Chiara
AUTORE: Ciolaa
TITOLO: Il fabbro
AUTORE: Dolli
TITOLO: Fiocchi di neve
AUTORE: Fixus
TITOLO: La Regina invisibile
AUTORE: Girasole
TITOLO: Una mattina di sole
AUTORE: Jules
TITOLO: La bellezza dell’arte
AUTORE: Lo stoico
TITOLO: Il trillo del diavolo
AUTORE: Miltoop
TITOLO: Seta nera
AUTORE: O.O
TITOLO: Punto d’incontro
AUTORE: Onda
TITOLO: IL SOGNO
AUTORE: RoxanaGrosso
TITOLO: 0,7 m/s
AUTORE: SaGi
TITOLO: Il volo senza ali
AUTORE: Silvia Bellaviti
TITOLO: Lasciamo alle cose il tempo di cambiare
AUTORE: sof
TITOLO: Il disordine è la perfezione migliore
AUTORE: Teresa Costa
TITOLO: Speriamo
AUTORE: Tim Lake
TITOLO: Un colpo di straccio su un vetro appannato
Quel mattino di fine dicembre Margherita era molto felice. Felice come non lo era mai stata.
Si era svegliata con una certezza che le aveva accarezzato i pensieri per tutta la notte: il desiderio nascosto che aveva sonnecchiato per tanto tempo stava per schiudersi e prendere forma. Era arrivato il grande giorno. Se lo era immaginato nella testa tantissime volte. Occhi tondi tondi, giallo con una macchiolina tra gli occhi, leggero e morbido come neve che soffice si posa sui rami d’inverno.
La luce del mattino attraversava le finestre e le illuminava il viso, le sorelle chiacchieravano al tavolo facendole domande su animali selvatici che vivono in luoghi sconosciuti ma lei era ormai distaccata da tutto, sentiva il vociare lontano e intanto ballava la sua musica interiore.
Un grande progetto stava prendendo forma nella sua testa e avrebbe tenuto occupate tutte le sue energie per le prossime
settimane. Un duro lavoro per costruire tutto ciò che le sarebbe servito. Già si vedeva sgattaiolare via da casa nel primo pomeriggio libero e infilarsi nel capannone del nonno in cerca di vecchie cassette di mele, qualche tronco e teli che avrebbe usato come copertura invernale.
Era arrivato il momento di mettersi in viaggio. Nella macchina l’agitazione era palpabile. Gli occhi le sorridevano mentre seduta composta cercava tra le fronde degli alberi poiane e falchetti appollaiati sui rami. D’inverno è difficile vederli cacciare, ma dopo mesi di attenta osservazione aveva carpito alcuni segreti dei suoi abitudinari amici. Tutto passava veloce davanti al finestrino ma ben poco sfuggiva alla vista acuta e selettiva di una bambina così curiosa. La macchina si fermò.
La cascina color mattone era lì davanti ai suoi occhi. Una siepe innevata e un cancelletto di legno. Una gazza per molti, una “Pica pica” per quelli appassionati come lei, la scrutava da lontano. Fu solo per un istante ma i loro occhi si incrociarono. Quell’animale così intelligente e amato le avrebbe portato tanta tristezza nel cuore, con la durezza di cui è capace la natura le avrebbe tolto il suo sogno dalle mani, ma sarebbe accaduto molti mesi dopo. Questo lei non poteva saperlo e in quello sguardo aveva solo percepito un’energia al tempo stesso elettrizzante e sadica. Avanzò di qualche passo calpestando il soffice strato di neve e iniziò a guardarsi attorno. Le sembrò di entrare in un quadro d’altri tempi, tutto era fermo e completamente avvolto nel silenzio. Davanti a lei trattori ricoperti di fango parcheggiati nella corte sembravano animali imbalsamati, un’aria fredda e pungente le solleticava il naso. Dal fienile uscì un bambino. Avanzò timidamente verso di lei tenendo stretta una scatola avvolta da una vecchia coperta color verde muschio. Sorridendo gliela mise nelle mani. Il suo tesoro era ora racchiuso in quel cartone. Ricambiò il sorriso e si allontanò per assaporare ogni istante da sola. La mamma era lontana e prendeva accordi con la padrona di casa, tutto intorno silenzio. I suoi erano gli occhi dell’attesa. Gli occhi dell’eccitazione per ciò che deve ancora venire, della magia di quel sogno. Margherita sorrise, poi fece un bel respirone. Posò la scatola sulla neve e la aprì con un tocco secco. Lo vide in un angolo, becchettava piccoli granelli di mangime. Era proprio come lo aveva sognato,
la macchia nera era lì, in mezzo alla testolina gialla. La sua mano passò gentile sul piccolo pulcino e le parve di accarezzare soffice sabbia. Chiuse gli occhi e si immaginò giocare con lui, di portarlo in braccio sull’altalena di casa e di insegnargli a stare seduto al tavolo accanto a lei. Era già così fiera del suo pulcino. Chicco era lì nella sua scatolina, una pallina gialla, già pronta per grandi avventure.
Chicco, come un piccolo chicco di grano, giallo e prezioso.
George passeggiava sul lungo mare di Étretat apprezzando la fresca brezza di quella mattina.
Si era concesso un’ultima passeggiata per ammirare le bianche scogliere di gesso prima di fare i bagagli e tornare a Parigi, dove lo avrebbe atteso il padre Gervais, rinomato libraio della capitale.
Sin dalla tenera età, George era stato abituato a godere del piacere della lettura e della compagnia dei maggiori intellettuali del tempo, ma non appena ne aveva occasione fuggiva per qualche giorno in Normandia, in quel piccolo villaggio di pescatori affacciato sulla Manica, un piccolo scrigno di autenticità.
Dopo aver assaporato l’aria salmastra, cullato dalla musica intermittente delle onde, George decise di passare a salutare un giovane artista che soggiornava da qualche mese nell’hotel del centro.
Lo aveva incontrato la prima volta al Caffè, intento a discutere di arte con alcuni avventori poco interessati all’argomento: George si era avvicinato ammirato ed erano subito diventati amici.
Claude, questo il nome del pittore, era un giovane parigino sulla trentina, dall’aspetto curato, con i capelli castani, la barba folta e un caratteristico cappello color pece.
George bussò un paio di volte alla porta del piccolo appartamento prima che Claude gli aprisse.
“George! Amico mio. Prima che tu parta, voglio farti una sorpresa e mostrarti una cosa.” disse Claude conducendolo verso l’angolo del soggiorno che aveva trasformato in studio.
Un cavalletto coperto da un pesante telo bianco campeggiava isolato.
“Ti voglio mostrare un dipinto che ho terminato qualche giorno fa. Sei il primo a cui lo mostro e voglio sapere cosa ne pensi”.
Non appena Claude scoprì la tela, George rimase senza fiato.
Il dipinto rappresentava un paesaggio invernale, un angolo di campagna di Étretat coperto da uno spesso strato di neve e immerso in un imperturbabile silenzio.
Completavano la composizione alcune abitazioni appena accennate in lontananza, una siepe, un cancello in legno sormontato da una piccola gazza.
La composizione restituì immediatamente a George un senso di stupore, meraviglia.
“Ho cercato di fissare su tela la percezione di un attimo, rendendo omaggio alla natura, al paesaggio che non è sfondo ma protagonista assoluto.”
George ascoltava distratto le parole del suo amico, la sua attenzione era catturata da quel paesaggio.
Il dipinto splendeva di una luce così reale, resa tramite pennellate rapide, intuitive, espressive mentre le ombre restituivano un senso di profondità alla scena.
“Claude, ma l’ombra della neve non è grigia…”
“Esatto George! L’ombra della neve è in realtà azzurra. Qualche tempo fa ho letto l’opera in cui Goethe definiva la teoria delle ombre colorate. Le ombre non sono grigie. In ogni ombra, in realtà, è contenuta una parte del colore del soggetto, una parte del suo complementare e una parte di azzurro. Per questo motivo, nell’ombra della neve noi troviamo il bianco, il nero ma anche l’azzurro.”
George era sempre più affascinato. L’attenzione ai dettagli perdeva importanza rispetto alla resa generale dell’opera.
Un senso di pace riempiva il suo sguardo.
Osservando quel panorama, aveva la sensazione di vedere qualcosa di nuovo ma, al contempo, già vissuto, nei nevosi inverni passati.
George trascorse alcune ore tentando, ammirato, di scoprire il segreto dietro a quel capolavoro, da cui non riusciva ad allontanarsi.
Quando alla fine si congedò, un’unica convinzione gli tenne compagnia fino a Parigi: nella sua vita animata dai libri, avrebbe voluto trovare il tempo per dedicarsi all’arte e poter ammirare ancora capolavori come quello del suo amico Claude.
La luce del mattino entra dalla finestra e si posa sui miei occhi ancora chiusi. Si sta così bene sotto le coperte calde, guardo l’ora: sono le 8, è ora di alzarsi e fare qualcosa. Mi avvicino alla finestra da cui proviene la luce, scosto le tende e la apro, la luce del sole si riflette sulla neve a terra, il recinto ha ancora uno spesso mantello bianco e anche gli alberi sembrano indossare un candido abito. Ad un tratto una gazza si posa sul recinto intorno a casa, incurante del freddo starà cercando qualcosa da mangiare, magari ha dei piccoli che la aspettano affamati al nido. L’aria si sta facendo troppo fresca, chiudo la finestra e decido di andare in cucina per iniziare a fare un po’ di pulizie, ma non prima aver messo sul giradischi il mio disco preferito e danzato con la scopa come se fosse un accompagnatore. Appena partita la canzone mi viene in mente il mio Alain: chissà cosa sta facendo, se sta bene e se ritornerà da me quando questa guerra sarà finita. Adesso si trova sul confine francese a combattere in trincea i tedeschi che vogliono conquistare il nostro territorio, sono mesi ormai che è partito e, a parte qualche lettera e qualche oggetto che mi ha mandato per posta, non ho notizie di lui. Sono così in pensiero, è meglio che mi metta a fare qualcosa per distrarmi. Inizio a spazzare e a lucidare tutta la cucina a ritmo di musica, poi passo al soggiorno e in seguito al bagno e senza accorgermene si è fatta l’ora di pranzo. Mi siedo al tavolo della cucina per mangiare, da quando sono da sola mi sembra così grande, i giorni ormai mi sembrano tutti uguali, mi guardo intorno e il mio sguardo cade sul vaso che io e Alain avevamo comprato qualche tempo fa per metterci dietro i fiori. E’ in porcellana, azzurro chiaro con delle decorazioni giallastre fatte a mano; quando l’avevamo visto Alain non era convinto di comprarlo, diceva che sarebbe stato uno spreco di soldi e qualcosa di per niente utile, ma quando ha visto che me n’ero innamorata al primo sguardo, non ha potuto resistere dal prenderlo. La musica è finita, cambio disco, mi metto a lavare i piatti guardando fuori dalla finestra il paesaggio innevato e penso a come sia strano il fatto che vista da lontano la neve sembri qualcosa di caldo e morbido come un cuscino con tanti cristalli quando in realtà è fredda e non proprio soffice. Mi metto a cucire una gonna che ho strappato per sbaglio. Ora che Alain non può lavorare ho iniziato ad andare qualche giorno a settimana da una sarta in città, quindi piuttosto che comprarmi vestiti nuovi sono finita per rammendare quelli degli altri. Mi piace come lavoro e in più mi permette di guadagnare qualcosa per mantenermi. Ad un tratto suonano alla porta, vado ad aprire ed è il postino con una lettera per me: sopra leggo “Esercito francese”, è di Alain. Ho sempre timore ad aprire le sue lettere, non so mai cosa aspettarmi: potrebbe essere soltanto lui che mi racconta cosa sta succedendo, qualche informazione che devo sapere, se devo spedire qualcosa, o peggio. Mi siedo sul divano, tiro fuori il foglio e inizio a leggere:
“Cara mia, tira fuori il tuo vestito rosso che metti nei giorni importanti, sarò di ritorno per Natale. -Alain”
Che sorpresa, non riesco a trattenere le lacrime, è davvero così o sto sognando? Continuo a piangere tenendo il foglio stretto tra le mie mani. Alain sta tornando e sarà qui per Natale, festeggeremo di nuovo insieme e con tutti i parenti, non potrei chiedere di meglio. Questa giornata non è più simile alle altre.
Il ticchettio dell’orologio scandiva inesorabilmente ogni secondo che passava. Sofia guardò la pagina bianca, poi si stropicciò gli occhi debolmente, mentre gli occhiali rimbalzavano sulle sue nocche. Controvoglia, e con rassegnato timore, guardò l’orologio: le 22.40. Era passata un’ora e non aveva scritto neanche una parola. Riprovò ad appoggiare le dita sui tasti, come se per qualche strana magia le mani potessero muoversi da sole e digitare parole per comporre pensieri meravigliosi. Nulla. La sera prima, almeno, aveva iniziato tre testi diversi, poi cancellati con rabbia: ogni parola le sembrava banale, ogni frase ridicola, ogni pensiero infantile.
Osservò ancora una volta il dipinto davanti a sé, cercando un’ispirazione che probabilmente era rimasta incastrata da qualche parte tra il tedio di una vita apparentemente perfetta e una bassa autostima. Il candido e stucchevole paesaggio innevato la osservava con spregio, come a dirle: eppure, guarda, è così facile trasformare la semplicità in un capolavoro. E quella gazza, appollaiata con fare impettito sulla staccionata? Le sembrava un giudice pronto a scuotere la testa di fronte alla sua resa.
Abbassò gli occhi sulla sua pagina e improvvisamente il bianco le parve insopportabile: bianca la pagina, bianca la neve del dipinto, bianche le pareti della stanza, bianca la scrivania, bianca la sua mente. Aveva sempre associato il vuoto al nero, al buio, mentre improvvisamente quell’assenza di parole le parve un incolmabile spazio bianco; quel silenzio nella sua testa le sembrò un’assordante musica monotonale; quella luce, che si rifrangeva su tutto quel bianco, un abbagliante lampo accecante. D’un tratto, la consapevolezza la colpì al petto con violenza: tutto quel bianco era la sua vita. Un’intera distesa di inutile, silenzioso, monotono bianco. Ogni momento della sua esistenza che affiorava alla mente si trasformava in un fiocco di neve, in una pennellata bianca che ricopriva la sua casa delle certezze, la staccionata dei limiti che si era imposta, gli alberi dei continui “se puoi, devi” sottintesi in ogni sua scelta.
Ma ecco che, d’improvviso, da quella consapevolezza sprizzò fuori qualcosa. Un colore? No, era qualcos’altro. Serrò gli occhi di scatto in cerca del buio. Aveva bisogno di parole, aveva bisogno di riempire, di sentire. In quell’istante, mentre l’orologio scandiva l’ennesimo secondo, un particolare prese forma nella sua mente. All’inizio le parve come un ricordo sfuggente, che si nasconde in qualche angolo della mente e che non si riesce ad afferrare. Poi, iniziò a prendere forma come una macchiolina nera. La gazza. Nel dipinto, c’è una gazza, si disse. Cosa ci fa una gazza nera, in mezzo a tutto quel bianco? Non può che essere lì per contrastarlo, per vincerlo, per sopravvivergli. Lei, la gazza, l’unica vivente nel bianco gelido. Una solitaria nota musicale su un pentagramma, un’unica parola su una pagina bianca.
Io posso essere quella gazza, posso essere quella parola. Posso essere l’inizio.
Fuori fa freddo. Il sole cola nell’aria di cristallo. O di ghiaccio forse, è solo una questione di temperatura.
Dentro fa decisamente più caldo. Nella luce distribuita male, l’aria è spessa, si acquatta negli angoli al buio tra fuliggine e trucioli di legno.
Fuori gli alberi adagiano a terra le proprie ombre, disegnando d’azzurro la geografia dei rami. Si sporgono poco oltre una staccionata, attraverso cui si insinuano sprazzi di intonaco chiaro: una costruzione bassa e lunga, solida.
Dentro la superficie dei muri è grezza, oppone la propria stabilità al caos che contiene: un tavolo da lavoro ingombro, ceste ricolme, una cassettiera dai pomelli scombinati. Attrezzi.
Piombo, acciaio, legno di quercia, ebano, balsa, lana grezza, fili da ricamo di seta.
Cose divise con un criterio insondabile.
Fuori la neve smussa ogni angolo e assorbe ogni tentativo di suono: sembra che l’aria non sappia più come vibrare. I comignoli sputano fantasmi di fumo, che si sfilacciano in silenzio diventando parte integrante del paesaggio.
Dentro, il fuoco all’interno della fornace articola un discorso tutto suo di schiocchi e crepitii. Il mantice risponde stridendo via sbuffi di scintille.
Un uomo batte del ferro sull’incudine, stronando la fuliggine che galleggia confusa.
Sotto il ritmo dei colpi, prende pian piano forma una parola: è da qualche ora che ci sta lavorando, per renderla solida e resistente. Ne aveva da parte già qualcuna, ma gli erano riuscite troppo grezze. La raffredda in un secchio, in una sinfonia di vapore acqueo che si solleva di scatto. Probabilmente ci passerà una mano di vernice per farla durare più a lungo, evitare che arrugginisca. Con un gesto deciso fa spazio sul tavolo e appoggia la parola su un angolo.
Fuori in equilibrio sulla staccionata, un grumo nero: una gazza si guarda intorno. Gli occhi, due spilli di carbone, scandagliano la neve in cerca di un tesoro.
Dentro la luce si riversa dalla bocca della fornace sulle mani al lavoro: i palmi ampi e le dita spesse che formano una morsa, le unghie ridotte al minimo dalla smania di creare. Si riflette negli occhi, che portano il respiro di terre lontane: di solito sono un baluginio in fondo ad un cappuccio, nero come il resto degli abiti, armatura a protezione delle idee. Ma non mentre è all’opera.
Recupera un cesto di parole d’acciaio, rovista a lungo, ne sceglie una. Poi cambia idea. Acciottolio metallico. Ne sceglie un’altra. Si mette alla mola e alza scintille finché i bordi della parola non sono diventati taglienti. Mentre tiene premuto l’acciaio contro l’arenaria, i bagliori della fornace gli si infrangono sulle braccia, disegnando di nero la geografia dei muscoli.
Alle parole di piombo ci penserà più tardi.
Fuori la gazza ha cambiato posizione per avere una visuale migliore nella sua ricerca.
Dentro, a colpo sicuro estrae dalla cassettiera una parola di balsa: con un coltello ne sta sbozzando un’altra in legno di quercia, forme accennate, solo un angolo lo rifinisce, decorandolo con minuscoli intarsi. Con gentile forza la incastra poi insieme a quella di balsa, creando una parola nuova.
Dal mucchio delle parole venute male con cura ne sceglie alcune, le spezza in punti diversi e le ricompone, le spezza di nuovo, le rimescola, le incolla e le incastra, le alterna a quelle venute bene. Mette insieme parole di ceramica con quelle di velluto, parole all’uncinetto, create con delicatezza impensabile, e parole di vimini. Maioliche, ebano, ossidiana, latta.
Quando il mucchio sull’angolo del tavolo è sufficientemente grande, estrae da una scatola ben conservata una spagnoletta. Srotola un filo di musica ed inizia ad annodare tra di loro le parole, disponendole con rigore, cercando la combinazione migliore.
Fuori il sole è quasi calato, la gazza ancora aguzza gli occhi: è un attimo, un frullo d’ali, poi si alza in volo tenendo stretto nel becco il suo tesoro.
Una parola di neve e ombre.
Dentro manca un’ultima parola per concludere il lavoro: l’ha cercata ovunque, ma non la trova. Chissà dove l’ha messa.
Indeciso sul da farsi, esce a prendere una boccata d’aria: sulla soglia la gazza ha adagiato il suo tesoro.
Respira, e i polmoni frizzano di sorpresa.
La parola di neve ed ombre si incastra perfettamente alle altre.
La signora Ida, entrando nel Musée d’Orsay, aveva scrollato l’ombrello che, poco prima, l’aveva riparata dalla pioggia battente. Da un vento gelido, che, a tradimento, aveva preso a soffiare impetuoso per le vie de la Ville Lumière, procurandole qualche brivido improvviso nel paltò leggero.
Ma ora, lì dentro, si sentiva ritemprata, desiderosa di iniziare al più presto la visita agognata. Un regalo che, ogni anno, era solita concedersi. Un momento tutto suo, per riuscire a cogliere, nel silenzio e nella concentrazione più assoluta, il fascino sottile che trapelava da quei capolavori. Quasi una corrispondenza di amorosi sensi a lei incredibilmente riservata.
Con questi pensieri ameni si era incamminata per le diverse sale, sfiorando con sguardo ammirato le tele esposte. Poi, di fronte alla Gazza di Claude Monet, si era fermata rapita.
Era la luce che il dipinto emanava, ad emozionarla. Luce anziché linee, volumi anziché disegni: testimonianza tangibile dell’impressionismo che stava nascendo.
E con occhi pieni di meraviglia, contemplava Il candore madreperlaceo della neve. Una neve soffice e materica, resa superbamente grazie al sapiente gioco di luci ed ombre. Ottenuta sovrapponendo infinite tonalità di bianchi, screziati via via, di viola, ocra, azzurro.
Celebri, infatti, le ombre colorate create dal pittore per riuscire a trascrivere il manto nevoso con vibrante verità, intuite dopo infinite ore trascorse a dipingere en plein air.
Alcune di un azzurro tenue a suggerire la compressione della neve dovuta al calpestio, altre quasi aranciate nelle zone accarezzate dalla tenue luce mattutina. Mentre una miscela di blu, grigi e rossi, sapientemente calibrata, rendeva in modo magistrale la profondità spaziale del dipinto.
Una neve talmente bella da sembrare vera, rammentava Ida con un pizzico di nostalgia, che la riportava in dietro nel tempo, ai ricordi di bambina nella casa di campagna. Quando, con il viso incollato alla finestra, scrutava affascinata i fiocchi di neve che, volteggiando sinuosi, si posavano sui vetri, trasformandosi in meravigliosi cristalli.
Ma al di là delle indubbie qualità pittoriche del dipinto, era la semplicità estrema del soggetto scelto ad affascinarla: una piccola gazza nera, appollaiata su di una staccionata di legno, quasi una nota su un pentagramma musicale, inserita in un paesaggio agreste innevato, ritratto nelle prime ore del mattino.
L’ unica creatura vivente in quell’ambiente solitario. Avvolto da un silenzio assoluto, palpabile.
Scena di un lirismo potente che aveva in sé qualcosa di surreale. Di magico. Come se il pittore più che dire, volesse suggerire la presenza di altri mondi. Di altre realtà. E l’accostamento fra il manto gelato in primo piano ed il tepore delle case intraviste tra gli alberi sullo sfondo, ne accentuasse il contrasto.
Dalla tela, rifletteva la signora Ida, pareva levarsi una musica silenziosa e dolente. Perché la solitudine della gazza, forse altro non era che la solitudine dell’essere umano di leopardiana memoria, o del pittore stesso, deriso e beffeggiato dai critici del suo tempo.
Dunque una bella sorpresa per Claude Monet scoprire che generazioni intere, in futuro, avrebbero ammirato ed amato i suoi quadri….
L’orario di chiusura del museo si avvicinava. Era tempo di raggiungere le amiche al bar in fondo alla via. Di concedersi un meritato caffè e perché no, una bella fetta di Saint Honoré con tanta panna montata, soffice e bianca come neve.
Silenzio, assoluto e incombente silenzio. Lentamente e con curiosità fece capolino dal suo nido e con estremo coraggio spiccò un balzo e prese il volo. Non capiva. Si arrovellava mentre con voli dritti e plananti osservava il mondo tutto intorno. Niente. Tutto quello che conosceva era svanito, sparito, mutato. Nessun piccolo roditore intento ad annusare e scappare, nessun insetto zigzagante da inseguire, nessun latrato echeggiante susseguito da altrettante risposte, rauche e acute, quante i comignoli fumanti di quella vasta striscia di terra rurale. Nulla di tutto ciò. Con un rapido frullio d’ali si spinse più su per avere un migliore punto di vista dell’eccezionale condizione che aveva stravolto il mondo intorno a lei. Il sangue le pulsava nelle vene, i muscoli tesi e palpitanti la spingevano sempre più in alto in cerca di una visione più ampia, pura e rivelatoria. Passò oltre allo strato di nuvole che copriva ogni cosa e fu accecata dalla luce calda e abbacinate del sole. Rinvigorita da quella scarica improvvisa di calda energia chiuse le ali e si tuffò nel mare bianco e spumeggiante sotto di lei. Volò radente la chioma degli alberi, facendo lo slalom tra i pochi rami spogli che spuntavano qua e là come come zampe di felino affamato, intente ad afferrala, felice e spensierata. Si specchiò sulla superficie gelata di un ruscello gelato, notando come i suoi colori assomigliassero a quello che tutto intorno la circondava. Ora il bianco e il nero erano i padroni del paesaggio. Niente verde, blu, giallo, arancione, solo bianco e zone d’ombra. Si appollaiò su di un ramo e divenne parte della pianta, atterrò vicino ad un cespuglio e fu cespuglio anche lei. In mezzo ad un campo tra buche e avvallamenti diventò parte integrante delle irregolarità del terreno. Era la regina incontrastata di tutto quello che le stava intorno, invisibile certo, ma la regina. Una regina invisibile. Quello era il suo territorio. Un improvviso pensiero la fece impensierire. Doveva difendere il suo nuovo dominio. Emise un verso forte e gracchiante, che avrebbe messo in fuga qualsiasi male intenzionato e in risposta le arrivò il nulla. Una melodia straziante, una musica assordante priva di qualsiasi nota. Riprese il volo, questa volta stranita dall’assenza più completa di vita che fino ad un attimo prima le stava causando gioia e onnipotenza. Riprese a volare in lungo e in largo alla ricerca di piccoli movimenti, suoni, stridii, squittii, insomma, di un’altra presenza oltre alla sua. Il suo volo da spensierato passò ad agitato, affannoso, disperato. Tutto taceva immobile in quella landa desolata dipinta di bianco. Si fermò sul bordo di una finestra e guardò dentro la casa, ma anche lì tutto taceva immobile. Cambio fattoria, nulla, tutto come prima. L’unica compagnia era data dalla sua immagine riflessa dallo specchio ghiacciato dell’acqua che di tanto in tanto la traeva in inganno. Stanca e depressa si lanciò in planata verso uno steccato e si accoccolò sopra al cancello di legno traballante coperto anch’esso da uno strato di neve. Come per magia, alle sue spalle, un raggio di luce illuminò il paesaggio che si riempì di scintille dorate. Rimase immobile ad osservare la magia. I colori ripresero vita e con essi anche i suoni ovattati e sopiti si risvegliarono. Piccoli gocciolii lontani, qualche tonfo sordo nelle vicinanze. Tutto si stava risvegliando. Talmente tanta era la meraviglia che non si accorse che dai camini della fattoria alle sue spalle cominciò a levarsi, lieve e leggero, un rigagnolo filiforme di fumo. Un movimento del manto nevoso davanti a lei la incuriosì e quando improvvisamente, da sotto la neve, sbucò il muso di una lepre, fu per lei una sorpresa così grande che aprì le ali e torno al riparo nel suo nido, spaventa, ma al contempo speranzosa di rivivere di nuovo le avventura di una regina invisibile.
Era una di quelle mattine che ti mettono l’allegria addosso. Il sole radente scivolava sulla neve
barbagliando gemme mentre le zone d’ombra vibravano di freddo Una gazza solitaria si era posata sullo
steccato dell’orto che avevo appena richiuso e si godeva tutto quel luccichio riscaldandosi le piume
intirizzite dal gelo notturno. Ero uscita di casa subito dopo la colazione con la sensazione che una
sorpresa aspettasse dietro l’angolo. Guardavo le mie orme stampate nitidamente sulla neve, indecisa sulla
direzione da prendere. La casa mi invitava a rientrare nel suo calore ma la prospettiva di una svelta
passeggiata mi attirava di più. In verità avevo l’intenzione di trovare dei regali per Natale, anche se da
anni non amavo più comperarli. Volevo trovarli! Dovevo solo cercare, cose semplici ma significative, non
il solito ramo d’abete o di vischio, qualcosa di….. più. Mentre indugiavo mi raggiunse un suono, no, una
musica. (Inizio sonata per violoncello di Bach) Proveniva dalla finestra socchiusa. Si involava nell’aria in
una fuga che dava euforia al cuore e agilità alle gambe. Quelle note suggerivano spazi sconfinati,
desideri senza limiti. Tutto, intorno, invitava ad andare, a cercare, a godere, tutto era veramente
bellissimo. Camminai a lungo, passo veloce, sguardo attento, mente in fermento, mi muovevo libera in
quello spazio. C’era silenzio. Ma un silenzio pieno di piccoli suoni: il soffio dell’aria, il gocciolio
dell’acqua, il trillo degli uccelli che il tepore ristorava, lo scrocchio di un ramo sotto i piedi. Ma era
comunque silenzio perché i rumori erano talmente in sintonia da donarne la stessa serenità. Ero
rigenerata e felice, piena di aspettative. Dopo un lungo giro e tantissimi passi però mi ritrovai di nuovo
davanti a casa e con le mani vuote.
Ero sorpresa ma tutt’altro che delusa. Rientrai nell’orto aprendo lo steccato che la gazza aveva ormai
abbandonato da tempo, ricoprii con i miei nuovi passi le vecchie orme attenta a non corrompere oltre la
levigata continuità della neve. Mi ricordai dello stesso gioco fatto da bambini; vinceva chi non usciva dal
tracciato. Con quel pensiero in testa svoltai l’angolo di casa e di colpo.. lo vidi. Lui era sempre stato lì ma
solo adesso lo vedevo per davvero. (Una foto albero cachi) Avevo occhi nuovi. Lui. il vero albero di Natale,
l’albero dai pomi d’oro. Erano colorati, ricchi, morbidi, belli. La loro stessa bellezza avrebbe donato
piacere a tutti. Anche a quelli che forse non ne apprezzavano il gusto o la consistenza. A tutti avrebbe
portato il mio “colorato” augurio.
Fuori il sole era stato da tempo oscurato dalle nuvole ma che importava, dentro era caldo.
Ho sempre pensato che le vacanze di Natale siano il periodo perfetto per visitare una città d’arte. Quest’anno, per la prima volta, ho deciso di partire da sola. Volevo allontanarmi dalla noiosa monotonia delle mie giornate, dai miei famigliari, dai miei amici, e dedicare un po’ di tempo ad una delle mie più grandi passioni: l’arte. Ho preso il treno questa mattina per Parigi, uno dei luoghi che da tanto tempo desideravo vedere e, come prima tappa, sono andata al Musée d’Orsay. E’ pieno di opere che abbiamo analizzato in classe insieme alla professoressa di storia dell’arte: da Manet a Renoir, Degas, Gauguin, Van Gogh e moltissimi altri.
Ma un quadro in particolare ha attirato la mia attenzione: “La gazza” di Monet. Dell’artista ne abbiamo citati tanti in classe, ma, ad essere sincera, questo non l’avevo mai visto. All’inizio mi sembrava una semplice rappresentazione: un paesaggio innevato con degli alberi e una casa sullo sfondo. Più lo osservavo, più notavo particolari nuovi, come le impronte sulla neve in primo piano, l’orizzonte infinito ed indefinito e le ombre azzurrastre che contrastano il bianco accecante della campagna. Solo dopo qualche istante la mia attenzione si è spostata anche su una piccola macchia scura sulla sinistra, che non era altro che la raffigurazione della gazza, quella che dà il titolo all’opera. Ero stranita: non riuscivo a capire come mai un essere così piccolo, quasi invisibile, che compare come una sorpresa, potesse essere il protagonista del quadro.
Ho contemplato talmente tanto quell’immagine che è come se per un attimo ci fossi finita dentro. Mi sembrava di sentire una dolce freschezza attorno a me, l’aria pulita e le gambe affondare nella neve soffice. C’era un silenzio assordante; la gazza era davanti a me, immobile. Era illuminata da una luce chiara e fredda che rifletteva la sua ombra solitaria sul manto candido.
D’un tratto, un gruppo di uccellini si è avvicinato e ha rivolto la sua musica armoniosa verso la campagna, spezzando quel silenzio tombale. Mi chiedevo come mai tutti gli altri uccelli volassero insieme nel cielo e condividessero il loro canto, mentre la gazza aveva deciso di starsene lì da sola, in mezzo al nulla. La osservavo e per un attimo mi sono sentita molto simile a quell’animale. Lei aveva scelto di guardare il mondo da fuori, pensierosa; senza cercare i suoi compagni e senza preoccuparsi di produrre come gli altri qualche canto melodioso. E io, come lei, avevo deciso di allontanarmi da tutto. Mi esaminava, come se in qualche modo si riconoscesse in me e avesse trovato qualcuno con cui trascorrere la giornata e stare in armonia.
Purtroppo, il tempo in quel mondo incantato era passato molto in fretta. Presto mi sono trovata nuovamente nel museo di fronte a quel quadro suggestivo, che a primo impatto mi era sembrato banale, ma che, dopo un’attenta osservazione, si era mostrato decisamente affascinante.
Questa è la bellezza dell’arte: talvolta, dietro a semplici rappresentazioni si celano immagini profonde che hanno la capacità di incantare l’osservatore e che possono diventare per loro una sorta di rifugio.
Il pavimento si lamentava sotto ai passi rapidi di Alfred, che camminava in tondo ormai da un po’.
“Piantala di fare così, mi metti agitazione” disse Stanley seccato.
“Dovresti essere agitato eccome! Siamo bloccati in questa stazione di posta ormai da quasi due giorni, sento che sto perdendo la testa” rispose Alfred, ponendo fine alla sua ansiosa camminata.
“Sta’ un po’ zitto e suona il violino, magari ti calmi. La tua angoscia non fermerà di certo la tempesta di neve.”
“No, non riuscirei a suonare in questo stato, senza spartito, non sono lucido.”
“Mi stai dicendo che un violinista esperto non ha nemmeno uno spartito con sé? Non mi avevi detto di dover suonare ad un concerto, domani? Sono certo che la partitura per esercitarti ce l’avrai, suona quella.”
“Il concerto! Non ci pensavo da ieri…” disse Alfred sospirando “ma, ad ogni modo, le candele fanno troppa poca luce, con la pessima vista che ho non riuscirei a fare musica come si deve” continuò poi.
Il violinista si diresse verso la finestra e scrutò oltre il leggero strato di vetro che lo separava da un freddo a dir poco glaciale.
La neve era arrivata fino a metà dell’altezza della staccionata.
La gazza che, qualche giorno prima, era posata sul cancello in legno aveva ora lasciato posto ad uno strato di neve ghiacciata.
Alfred alzò poi lo sguardo e, osservando il lungo edificio lì presente, domandò: “Allora sei proprio certo che in quella casa non ci sia nessuno al momento, Stan?”
“Ancora con questa domanda? Là dentro ci viviamo io e mio fratello, se fosse tornato prima della tempesta coi cavalli ce ne saremmo di certo accorti e sarebbe venuto qua da noi. E poi non chiamarmi in quel modo, come se fossimo amici. Sei qua come mio cliente e sappi che questi tuoi giorni di permanenza extra te li farò anche pagare.”
Alfred non replicò, non ne aveva voglia. Si limitò a mettersi sotto la sua coperta per provare a dormire, anche se invano.
Dopo qualche ora di insonnia il musicista si alzò per andare a vedere come fosse la situazione fuori, notando con grande gioia che la tempesta era finalmente cessata.
Corse verso la porta per aprirla, ma la trovò chiusa a chiave, probabilmente per evitare che il vento la spalancasse. Allora Alfred si scagliò contro di essa tirandole calci e spallate come un ossesso, fino a farne cedere i cardini.
Stanley si svegliò al suono di quei colpi e vide il suo cliente correre nel buio della notte gridando: “Finalmente è finita, ha smesso di nevicare!”
Il proprietario della stazione si diresse verso la porta e scoprì che la neve cadeva ancora, forse anche più intensamente rispetto a poche ore prima.
A quel punto l’uomo di mezza età scattò fuori dal caldo edificio per rincorrere Alfred, che si era lasciato sprofondare nella neve gridando di felicità.
Stanley non capiva se fosse un sogno o meno, quel momento gli pareva più che assurdo. Una volta raggiunto lo smilzo violinista lo prese e lo trascinò di peso fino alla stazione, imprecando durante il tragitto, soprattutto perché Alfred opponeva non poca resistenza per liberarsi dalla presa.
Non appena furono arrivati Stanley mollò Alfred sul tappeto.
“Cosa fai?! Lasciami andare fuori! Non vedi che la tempesta è finita? Cos’è, vuoi tenermi qua più a lungo per farmi pagare altri soldi?”
“Ma di cosa parli? Ti è dato di volta il cervello? Fuori nevica ancora tantissimo e fa un freddo cane! Lo stare chiuso deve averti fritto il cervello.”
“Quello col cervello fritto qua sei tu, non io! Ora fammi uscire!” gridò Alfred scagliandosi contro il ben più pesante Stanley.
Come risposta a questa aggressione il violinista ricevette uno spintone, finendo contro l’armadio adibito al contenimento di oggetti quali stoviglie, posate eccetera. Allora Alfred lo aprì e prese un piatto che lanciò subito contro l’altro uomo che non fece in tempo a schivarlo: l’oggetto in porcellana si frantumò rovinosamente sul suo volto.
Stordito e accecato dal colpo Stanley non riuscì a fermare la coltellata che Alfred gli inflisse alla gola, facendolo cadere a terra.
Subito dopo il musicista, ormai colto da un’ira bestiale, infierì sul corpo inerte di Stanley con varie altre pugnalate e calci.
Mollò l’arma e si abbandonò al pianto più disperato della sua vita, fissando il corpo esanime di Stanley.
China sul water Rachele sputa, si ripulisce col dorso della mano e va allo specchio.
C’è bisogno di fondotinta.
Il telefono vibra e si illumina. Giuditta: “sono qui sotto”. Rachele tira su col naso e torna in soggiorno.
La luce delle candele cosparge d’oro la scena. Sua madre che imbocca il piccolo con l’omogenizzato, il grande che scava trincee nel purè. La suocera prova una fitta, come ogni volta che la vede, ma rimane composta, con inamidata sobrietà accanto al marito ciondolante sul piatto. Seduto di fronte a loro Paolo si schiarisce la voce, ma non dice nulla.
Sotto l’albero ci sono strappi di carta colorata.Sul tavolino biglietti augurali. Il suo riproduce, su soffice carta pecora, un Monet: la gazza. “Ti amo.Paolo “ c’è scritto.
“Scendo in pasticceria a ritirare il panettone farcito”, dice Rachele.
Lo sguardo nauseato di Paolo le grida che è la solita svampita.
Lei infila il cappotto e scende. Ai piedi le pantofole rosse.
Solo ora realizza che fuori, la fanghiglia bianca… spera che Giuditta abbia parcheggiato vicino.
Già,Giuditta.
Si sono conosciute 6 mesi fa, nella sala spoglia e satura di disinfettante dove quest’ultima l’aveva aiutata a sedere, sudata e lacerata da ondate e risacche di dolore crescente. Paolo era rimasto alle sue spalle, inconsapevole del sollievo che le aveva dato, risparmiandole la vista di quell’uomo che sembrava suo figlio, fresco e stirato com’era nella sua polo azzurra.
La notte era stata per Rachele un turbinio indistinto di lampi di dolore e scivolamenti nel torpore che si erano susseguiti fino all’ultima ruggente spinta.
Ma le erano sfuggiti gli sguardi, gli ammiccamenti alle sue spalle? E il caffè condiviso nella piccola cucina del reparto?
“Mi aveva detto di essere tua sorella “, le avrebbe confessato Giuditta il mese dopo, quando lei stessa aveva chiesto di incontrarla.”Una settimana dopo era già qui sotto ad aspettarmi a fine turno e siamo andati insieme a Montecarlo” Per tutto il viaggio, e gli altri che sarebbero seguiti, le aveva parlato della sua musica e della sua band. Le aveva fatto regali: prediligeva il pizzo e la seta nera.
E le taglie strette.
Anche a Rachele Paolo comprava da tempo abiti, ma la misura era quella della commessa. Lei si sforzava di tirare su la lampo, di rispondere col sorriso ai suoi sguardi di delusione e a quelli taglienti della suocera, perseguitata da quel senso di colpa che le dava ogni boccone di troppo, ogni cioccolatino, ogni conato che si procurava di nascosto.
“È che lui… lui mi fa sentire bene. Nonostante tutto…” aveva detto Giuditta,”solo che poi…”.
Per Rachele non c’era stato bisogno di altro. Sapeva bene quanto fosse difficile meritarla quell’attenzione, e quanto potesse essere crudele la sua delusione. All’inizio era stata una spinta per toglierla di torno, una stretta troppo forte del polso per farle entrare un concetto in quella sua testolina, una sberla per farle capire che quella voce squillante da campagnola proprio non si poteva accettare in quell’appartamento signorile.
Ora, in macchina, Giuditta dice andiamo.Le spazzole liberano a fatica il parabrezza dalla crosta gelata.
Bianco. Tutto intorno è immacolato e immobile. La gazza se ne sta impettita sullo steccato.
È un bel biglietto, pensa Sara seduta alla scrivania e legge ancora una volta il messaggio. “Ti chiedo scusa amore mio, mi farò perdonare, vedrai. Stasera da te?”.
Sara ci pensa un po’ su. La sera prima lui è stato brusco e l’ha un po’ forzata, anche se lei era stanca.Ma quando lui la guarda con quel desiderio, con quella brama, beh… lui è capace di valorizzare quel suo lato femminile che mai nessuno prima…per questo non gli ha ancora parlato del suo lavoro.
Con sorpresa Sara alza lo sguardo e vede oltre la porta del suo ufficio che due donne sono entrate in commissariato.
Ripone il biglietto nel cassetto e le fa entrare. Una delle due ha un paio di pantofole rosse zuppe di acqua gelata..
Sara si mette alla tastiera e comincia a redigere” 25/12/22, ore 15.22…”
Quel paesaggio innevato che somigliava a un quadro di Monet era tanto affascinante quanto inquietante. Lì, sotto tutta quella neve, poteva esserci chissà cosa o chissà chi, ma di certo non sarebbe stato piacevole.
Era un freddo pomeriggio di inizio dicembre. Joe Campbell stava attraversando frettolosamente la strada per dirigersi in un bar del centro. Dopo aver ordinato un cappuccino, si mise a osservare gli interni rustici del locale, quando fu distratto dal pianto di un bambino. Il bambino era alla cassa con la mamma e indicava insistentemente un ovetto sorpresa. -No Brian, oggi hai già mangiato troppo cioccolato– continuava a ripetere la madre. Dietro di loro, un signore di mezz’età dalle folte sopracciglia e un lungo cappotto nero osservava la scena divertito; quando la signora si diresse verso l’uscita egli prese un ovetto di cioccolato e la raggiunse fuori dal bar. Joe non si era accorto che intanto il suo cappuccino era arrivato. Con un nodo alla gola e le lacrime agli occhi, prese la tazzina e ne sorseggiò l’amaro contenuto che sapeva di tristezza, di malinconia, di passato. La scena precedente lo aveva riportato indietro di qualche anno, quando la sua piccola era ancora viva, quando al mattino quella che ormai era diventata la sua ex moglie preparava una pila di pancakes, quando tornava a casa dal lavoro con un ovetto di cioccolato per fare una sorpresa alla sua bambina e per vedere quel sorriso privo dei due incisivi superiori. Joe non riusciva a resistere, sapeva che prima o poi avrebbe ceduto alla pressione della vita: doveva resettare tutto.
-Grazie mille, ma non doveva disturbarsi! Brian fa solo i capricci, sa come sono i bambini… – disse la donna all’uomo con il cappotto nero. –Quell’uovo è presente solo nella nostra città, non mi stupisce che suo figlio lo desiderasse tanto- rispose l’uomo. Brian, che aveva già scartato la sorpresa, esclamò: -Wow mamma! Guarda, una mappa! Bisogna trovare un tesoro! Ci andiamo mammina?- La signora, visibilmente esausta, scrutò la mappa del grande parco naturale a pochi chilometri di distanza. –Be’…mentre tu giochi, io potrei riposarmi…va bene tesoro andiamo al parco!-
Più tardi, quelle parole pronunciate con leggerezza, le sarebbero costate una chiamata al 911 per denunciare la scomparsa del suo piccolo Brian.
Era una tarda serata di dicembre. Maddie camminava sul marciapiede di una stradina deserta, illuminata solo dalla luce fioca dei lampioni. Quella sera, dopo il lavoro, sarebbe dovuta andare a teatro a sentire il concerto di Joe Campbell, un giovane ma eccellente violinista della sua città. Avrebbe tanto voluto sentire dal vivo la melodia incalzante della Campanella, ma il concerto era stato improvvisamente cancellato. Mentre era immersa nei suoi pensieri un’auto le si avvicinò silenziosa e con essa una donna. Prima che la ragazza trovasse il tempo di pensare lucidamente la donna le afferrò il braccio, la stordì con un colpo e la caricò sulla macchina. Poi fece cenno al guidatore, un signore di mezz’età con sopracciglia folte e un cappotto nero, di partire.
La squadra di ricerche era partita con l’intento di trovare un bambino scomparso al parco naturale, ma inaspettatamente, assieme al piccolo cadavere congelato, aveva trovato altri due corpi che l’autopsia avrebbe rivelato appartenere a Joe Campbell, morto di suicidio, e Maddie Nelson, morta di omicidio. Quelle tre vite, apparentemente così distanti, si erano incrociate per caso e avevano finito per influenzare l’una il corso dell’altra: se la mamma di Brian non avesse incontrato quell’uomo misterioso e non avesse portato il figlio al parco, forse il piccolo non sarebbe scomparso; se Joe non avesse assistito a quella scena che aveva riaperto in lui una ferita non ancora guarita, forse non avrebbe preso la crudele decisione di togliersi la vita e avrebbe suonato al concerto al quale avrebbe assistito Maddie che quindi non sarebbe stata rapita. Tutto questo ci porta a realizzare una verità inconfutabile: la vita è un labirinto e il nostro destino dipende inconsapevolmente dalla strada che percorrono gli altri.
Il meteo prevedeva neve per la notte. “il profumo nell’aria c’è” , “vedremo domattina…”
Ritiro’ le scarpe dall’esterno e pensò che probabilmente non tutte le sue piante si sarebbero salvate dal freddo, avrebbe dovuto proteggerle. Era inverno inoltrato, in quei giorni la luce rinnovata andava crescendo, promessa di nuovi germogli. Forse in quei rami spogli già circolava nuova linfa.
Si rannicchio’ nel letto arrendendosi, da un po’ di tempo pensava che il sonno fosse un viaggio speciale. “Le piante sul balcone… gli alberi”. Si trovò di fronte ad un grande tronco. “Questa parte è liscia, appoggia la mano e spingi, entra, vieni …” La sua mano affondò piacevolmente nel legno liscio, si aprì una porta. Entrò. La persona che l’accompagnava non la segui’, lei non se ne accorse.
Quella notte il mondo era il quadro di Monet. L’ambiente sembrava famigliare e non c’era urgenza. La neve sugli alberi era ancora lì, i vecchi raccontano “finché la neve non scende dai rami nevicherà ancora”.
Camminava evitando le ombre dello steccato per godersi il tepore del sole. Il corpo era caldo per l’eccitazione di quello spettacolo luminoso, fresco, pulito e silenzioso.
Mentre gli occhi e il respiro assorbivano quella naturale bellezza, udi’ una musica e un canto. Incuriosita, pensò di andare fino alla casa al di là dello steccato, l’unica incertezza rimaneva la gazza, non poteva certo disturbarla mentre si stava asciugando le piume al sole.
“Se non passo di lì devo scavalcare, potrebbe essere divertente, ma mi bagnero’ piedi e mani”. Mentre si avvicinava ai tronchi ricoperti di neve una voce roca e calma arrivo’: “passa di qui, vieni, la porta è aperta”. Si avvicinò al traballante cancello di legno ed entrò.
La gazza richiuse, era perciò il guardiano di quel luogo.
Ora la situazione stava diventando interessante, forse non avrebbe dovuto essere lì, la porta era socchiusa “permesso, posso entrare?” La stanza piccola emanava profumo di legno e la stufa era accesa; era il libro appoggiato sulla poltrona ad emettere musica. Senza alcuna incertezza si adagio’ comoda e iniziò a sfogliare: solo immagini. “Niente parole, finalmente!”.
Percorse le prime pagine dal bordo come un osservatore di un film in bianco e nero. Le geometrie della città erano interessanti, perfette, la simmetria dei palazzi rassicurante, tutto regolare. L’inquietudine si manifesto’ nel petto quando si rese conto che gli uomini erano senza volto e si accorse di essere trasparente. Decise di andare avanti, lasciò il bordo del foglio per entrare e capire cosa mancasse. Disegnò gli elementi lei stessa, con il suo movimento regalò agli alberi le curve e le forme dolci, con il calore abbelli’ le case, riempì il cielo, i prati, i fiori con i colori e disegnò il fiume, il lago, le montagne sullo sfondo. Man mano che esplorava, capiva, le forme cambiavano e gli ambienti si riempivano di dettagli.
Furono i bambini che correvano e giocavano a riconoscerla per primi.
“Finalmente nell’ordine un po ‘di confusione”, pensò. Si accorse di non essere sola.
“E’ ora di tornare” La sveglia suonò. “Hanno azzeccato le previsioni”
Mentre si infilava le scarpe vide una fogliolina sbucare dalla neve e sotto un delicato petalo giallo. “Che sorpresa, una primula!”.
Osservò le gazze litigare nel contendersi un guscio di noce mentre apriva il cancelletto di casa.
Ho uno strano modo di stare al mondo io: prendo in prestito la quotidianità, i piccoli dettagli, le poesie, i sorrisi accennati, gli scatti rubati delle vite altrui… li faccio miei per qualche istante, poi li restituisco.
Può essere la forma di una nuvola o il suono delle campane, la fossetta sulla guancia o il canto delle cicale; ad un certo punto prendono vita e si fanno storie.
Ecco lì “La gazza” di Monet, mi avvicino sempre di più e all’improvviso sento la pianta del piede sprofondare nella neve. Ho sempre amato la neve e penso ci sia qualcosa di magico, anzi di sublime, nel modo in cui si posa delicata sui rami secchi degli alberi o sui comignoli rossi dei tetti delle case che scorgo a qualche metro da me.
Faccio qualche passo sulla neve fresca lasciando orme in fila indiana dietro di me, un piede davanti all’altro, poi alzo lo sguardo verso il sole e mi sento travolgere dalla sua luce timida, che a malapena intiepidisce il viso. Come me anche una gazza cerca un po’ di calore, se ne sta appollaiata sullo steccato in legno e sembra guardarmi con lo sguardo sicuro di chi sa perfettamente che l’estraneo della situazione non è lei perché, a differenza mia, nasce da una manciata di rapide pennellate, come tutto ciò che mi circonda; ma io non le dò retta e decido di appartenere a quel mondo ancora per un po’, ne ho bisogno. Ne ho bisogno perché quella pace che respiro è ossigeno puro, perché quel silenzio è musica per i miei pensieri e perché tra quelle pennellate mi sento bambina.
Ecco che inizia a nevicare, 0,7 m/s è la velocità con cui cade ogni singolo fiocco di neve, mi piace guardarlo cadere con il naso all’insù e vedere come si scioglie sul palmo della mia mano. Mi ricordo che da piccola non vedevo l’ora che arrivasse l’inverno, passavo la vigilia di Natale affacciata alla finestra con le piccole mani sul vetro e credevo che in cielo ci fossero degli angeli che sbattendo le soffici ali bianche facessero cadere sulla terra fiocchi di neve, e in cuor mio ancora ci spero.
I petali di neve si fanno sempre più fitti, tanto che la gazza spicca il volo e si rifugia nel nido sull’albero alla mia destra, mentre io sono costretta a chiedere ospitalità alla prima casa che intravedo infatti apro lo steccato e inizio a correre, lentamente perché non c’è nessun altro posto in cui vorrei essere.
Le luci sono accese e a pochi passi dalla porta d’ingresso sento un forte profumo di biscotti alla cannella invadermi le narici, così decido di bussare ma nessuno mi apre. Aspetto ancora, poi mi accorgo che la porta è aperta ed entro in punta di piedi pronunciando “permesso” con un filo di voce. Il profumo di cannella si fa più intenso, deve provenire dai biscotti appena sfornati sul tavolo del salotto, la legna brucia nel camino e c’è un mandarino sbucciato sulla credenza ma, con mia grande sorpresa, scopro che non c’è anima viva, tranne la mia . Una sorpresa in realtà messa in atto dallo stesso Monet, consapevolmente, penso non volesse contaminare questa purezza e questa quiete con la presenza umana.
Purtroppo è arrivato il momento di tornare alla realtà, faccio qualche passo indietro e piano piano le case, i comignoli, gli alberi si allontanano da me, non ci sono più le orme in fila indiana, la gazza è tornata al suo posto, lo steccato è chiuso e gli angeli non hanno ancora iniziato a sbattere le ali.
Non ricordo un dicembre più freddo di questo, ogni mattina quando cammino nella neve ghiacciata ho la sensazione che il mio corpo possa cristallizzarsi da un momento all’altro nel paesaggio silenzioso e abbagliante del mattino. I miei passi sulla neve lasciano orme leggere, la coltre già pestata è dura, compatta e a volte, per gioco, mi ritrovo a cercare a margine del sentiero porzioni di neve ancora intonsa, lascio l’orma del mio piede e mi guardo intorno per cercare riferimenti nel paesaggio che mi aiutino a ricordare il punto dove l’ho lasciata. Domani per far passare il tempo del lungo cammino cercherò quell’impronta, che riconoscerò come segno del mio passaggio.
La mia mente vaga leggera e mi ritrovo a fantasticare su un personaggio alto, oscuro ed elegante che oggi noterà quell’orma nella candida neve e si domanderà a chi possa appartenere: forse alla giovane fanciulla che ogni mattina percorre il sentiero verso la casa dei Signori? Poi un blocco di neve scivola da un ramo con un tonfo improvviso e mi riscuote dal sogno, per fortuna non mi è caduto addosso o mi sarei coperta di neve, devo stare più attenta. Chissà se davvero qualcuno mi ha notata e si domanda chi io sia, magari qualcuno potrebbe cercarmi, chiedermi se ho bisogno di un passaggio. Quasi tutti i giorni scorgo un calesse che percorre la strada che costeggia il sentiero, c’è solo il cocchiere e potrei fare un pezzo di strada con lui, senza recare alcun disturbo a nessuno.
Intanto la luce si è fatta più chiara, le ombre degli alberi sulla neve si muovono nella brezza pungente del mattino, sono giunta quasi a fine percorso e se allungo il passo potrò fermarmi a riposare prima della lunga giornata di lavoro. Osservo la nuvola di vapore che lascia il mio fiato, ogni respiro appanna la visione della strada che vedo solo avanti a me, sono talmente infagottata nel pesante mantello di ruvida lana che se non mi volto completamente non vedo nulla ai lati dei miei occhi. Il rumore ovattato dei miei passi è una musica ritmata che interrompe il silenzio del mattino e scandisce il faticoso percorso, sono talmente concentrata su di essi che non mi accorgo di aver quasi raggiunto la meta. Ma ecco che a sorpresa appare in lontananza lo steccato prima della casa, sono quasi arrivata e non so se gioire per la fine del cammino o angosciarmi per ciò che mi aspetta nella casa del padrone. Sono già così stanca che non so come fare ad affrontare la giornata. Ora c’è tanta luce che brilla sui cristalli di neve, le ombre degli alberi cominciano a colorarsi, l’aria è pulita e fresca e non si sentono rumori, mi godo il silenzio prima del risveglio dei Signori, quando stasera tornerò ad assaporarlo sarà buio e non sarà un silenzio piacevole. Gli ultimi passi, mi fermo un istante a riprendere fiato e una gazza si posa sul fragile cancello di legno, gli istanti diventano due, poi tre e io sono come paralizzata in quest’attimo, non sento più il freddo, la fatica, osservo la gazza che guarda lontano, non oso voltarmi verso il suo orizzonte perché potrei spaventarla e quindi resto immobile, voglio che questo momento non finisca mai. La osservo, poi chiudo gli occhi lentamente, vorrei che un incantesimo potesse trasformarmi in lei per sentirmi libera e leggera… sto di nuovo sognando fantasie impossibili. Lentamente e con timore riapro gli occhi e la vedo, è ancora lì. Aspetto che voli via, desiderosa di volare via con lei.
Quanto piacerebbe a Lisa saper di nuovo dipingere tutto quello che vede dalla finestra. Suo padre questa mattina presto ha scostato le tende perché la luce del sole d’inverno entri nel salone attraverso la grande porta a vetri che dà sul giardino. Ha pure sistemato un cavalletto speciale per disegnare senza che la figlia debba scendere dal letto.
Lisa sta coricata e fissa oltre la luce. Il padre si avvicina per premere il bottone del letto tecnologico e tirare su lo schienale inclinando la posizione delle gambe, in modo che la ragazza possa stare seduta più comoda, come in poltrona.
Poi le accarezza la testa: – Sai, stanotte è nevicato tanto, e la neve ha coperto tutto il giardino, se guardi bene, il paesaggio che abbiamo di fronte ha ricreato all’esterno la stessa immagine di un quadro famoso: mi aiuti a ricordare quale? –
La figlia non risponde.
– Coraggio Lisa, un piccolo indizio: da ieri siamo in inverno, olio su tela en plein air, 1868…, uno dei tuoi pittori preferiti. Ti ho detto tutto. –
– La pie – dice la ragazza spostando lo sguardo verso il padre.
– Sapevo che ti saresti accorta che il nostro giardino si è trasformato e che c’è davvero qualcuno appollaiato lì fuori, ma forse non è una gazza. Vuoi provare a disegnarlo tu? – e le porge subito la cartellina con i fogli e il carboncino.
Lisa lentamente tira fuori le braccia da sotto le coperte e abbozza un sorriso.
– Dai! Mancano pochi giorni al 31 e potresti aggiungere ancora un disegno ai lavori già inviati per l’esposizione in accademia. –
– Papà, i miei sono solo schizzi, non so neanche se riuscirò a completarli con un po’ di colore… –
– Lo sai che sei bravissima. Ti sistemo il cavalletto qui sulle coperte, in modo che tu possa appoggiare il foglio e cominciare. –
Lisa chiude gli occhi. Ma perché suo padre continua a chiederle di fare delle cose, di muoversi, di esercitarsi come prima, prima di scoprire che il suo corpo fatica a stare in piedi e non ha la forza necessaria per reagire? Se potesse, lei preferirebbe stare ferma e trasformare solo con la fantasia, figure e paesaggi.
– Senti, ti va un po’ di musica? Sono io che ho proposto, scelgo io quale! – scherza il padre mentre collega il lettore cd alla corrente – Non guardare… –
Lisa sa già che non le piacerà l’album degli Abba, che suo padre invece adora.
– Lo so che in fondo in fondo li adori anche tu! –
Lei sorride di nuovo. Poi prende il carboncino e comincia a tracciare qualche linea sul foglio.
– Vedrai ora come ti sentirai ispirata, cara la mia pittrice – le dice lui, mentre la musica invade la stanza.
– Non guardare tu ora, papà, vorrei farti una sorpresa. –
Il padre, felice che lei abbia acconsentito a disegnare, la lascia tranquilla.
– Non cercherò di scoprire cosa disegni, e stai sicura, sarò muto come un pesce rosso. Non si dice così? Ecco, brava, ridi che ti fa bene. Ci fa bene. –
Poi, un po’ rincuorato, va a prendere il giornale sul tavolino vicino alla porta d’ingresso, si siede in poltrona e comincia a leggere. Intanto sua figlia si è messa a disegnare con un certo impegno. Dal bordo della pagina del giornale lui la spia. Ma, poco dopo si rialza per avvicinarsi al tavolino e mescolare il contenuto di una bustina in un bicchiere d’acqua.
– Papà, anch’io vorrei fare tante cose – dice Lisa mentre prende la sua medicina – e ti prometto che ce la metterò tutta. Mi passi i pastelli? – Gli sorride.
– Si – pensa rimettendosi al lavoro – oltre il giardino adesso disegno una strada in salita, e qui posso metterci una panchina per prendermi una pausa, e un po’ più su una fontanina per rinfrescarmi. E poi…dei fiori sui prati e sulle siepi… –
Il disegno sta prendendo vita e i colori sbocciano sul sentiero, anche se il paesaggio che ha davanti è carico di freddo e neve! Ma Lisa immagina già la natura che cambia, e sa che anche le cose, con il tempo, potrebbero cambiare.
Non posso muovermi; non perché ci sia qualcuno o qualcosa che me lo impedisca, ma perché anche il più impercettibile movimento, cauto o brusco che sia, rovinerebbe la perfezione che mi circonda. L’unico che può permettersi di interrompere l’assordante silenzio, è il vento. Si sposta tra gli alberi innevati con maestria ed eleganza. Muove lievemente i ramoscelli più piccoli, da cui cade la neve,che accompagnata dolcemente, si appoggia a terra formando minuscoli cumuli, tutti diversi tra loro. Sembra quasi che il vento lo faccia apposta, come se volesse modificare a suo piacimento il paesaggio, anche se ai miei occhi pare già perfetto. Spolvera il leggero strato superiore di neve che non ha fatto in tempo a condensarsi con il resto. Il cambiamento è impercettibile per me, ma questo non vuol dire che non sia avvenuto.
Se socchiudo gli occhi posso sentirlo, mi accarezza il collo, spostandomi i capelli da un lato, come una delicata carezza di una madre verso il proprio bambino. Mi sussurra qualcosa all’orecchio, trattengo il fiato per sentirlo meglio. Sta fischiettando una melodia, mi sembra sconosciuta, ma immediatamente prende possesso di me. I miei denti iniziano a battere tra di loro, non risulta però inappropriato, anzi pare quasi che vogliano accompagnare la musica.
Prima battevano a causa del freddo che si era impossessato di me, ma adesso il padrone del mio corpo è la melodia del vento.
Riapro gli occhi. Una luce fioca cerca invano di fuoriuscire da uno strato sottile di nuvole bianche. Una piccola parte che non si è arresa mi permette di ammirare la rinascita di quel tranquillo e silenzioso boschetto. Tutto inizia ad essere musica.
Gli alberi riproducono il suono dolce di un violino, le cui corde non sono sfregate da un archetto bensì dal vento.
La gazza ladra, appollaiata su una scaletta, non gracchia fastidiosamente, ma anzi dal suo becco fuoriesce un piacevolo suono, paragonabile ad un flauto traverso.
Tutti insieme formiamo una grande orchestra, come se ognuno di noi avesse aspettato tutto questo tempo solo per incontrarsi e, finalmente, unirsi in questa perfetta melodia.
Ora non posso stare ferma; cammino, danzo, saltello, corro. Non sono io che decido dove andare, è il mio corpo che si muove a ritmo di musica. I miei piedi formano figure imperfette e disordinate sulla neve candida e lineare.
Prima pensavo che quel paesaggio tanto silenzioso e uniforme fosse perfetto, ma la vera perfezione l’ha raggiunta adesso, con il caos e la confusione.
Voglio che questa melodia si diffonda ovunque e che chiunque ne prenda parte.
Vedo una casa in lontananza, mi ci avvicino e apro con naturalezza la porta, come se fosse casa mia. Entro senza chiedere il permesso, ma quando sto per appoggiare il piede nell’accogliente salotto… mi risveglio.
Ora sono nel mio solito letto di casa e realizzo che era tutto un sogno. Che quel grazioso boschetto è svanito, e non so se tornerà la prossima volta che chiuderò gli occhi. Chissà se quando uscirò di casa, questa mattina, anche il vento del mio vero mondo deciderà di coccolarmi ed accompagnarmi fino a scuola, proprio come quello frutto della mia immaginazione.
Dopo aver fantasticato per ancora qualche minuto, decido di guardare l’ora, sono le 6:45 , realizzo di essere in ritardo.
Mi alzo di corsa e inizio a prepararmi; mi faccio una doccia, mi vesto e mi trucco. Ho da sempre l’abitudine di truccarmi, per cancellare tutte le imperfezioni che ritrovo sul mio viso, anche se puntualmente riesco a trovarne di nuove.
Ma questa mattina guardandomi allo specchio tutte quelle imperfezioni sembrano rendere il mio viso solo più originale e non peggiore come ho sempre pensato. Decido così di togliermi tutti quei inutili cosmesi che da sempre spargo eccessivamente sul mio viso.
Oggi mi sento perfetta così, con tutte le imperfezioni, perché d’altronde, proprio come ho imparato nel mio sogno, il disordine è la perfezione migliore.
Stanotte è nevicato. Io me l’aspettavo perché ho sentito passare lo spartineve. Ma non è stata una bella nevicata, di quelle che coprono di bianco il giardino, e i rami degli alberi e le siepi e i tetti delle case. Quelle che rendono il paesaggio irreale e che, se poi spunta il sole, colorano di luce giallo-azzurra tutte le cose. Come nel quadro di Monet, dove c’è una gazza appollaiata su una scala. Che poi, sarà proprio una gazza? Potrebbe essere anche un corvo.
Non importa.
Ecco, non nevica già più.
Chiudo la finestra.
Un colpo di tosse. E’ sveglio.
Da quando è tornato dall’ospedale, lui dorme nella stanza accanto alla cucina, in un letto tecnologico, che va su e giù. I nipotini ci giocano e lui li lascia fare.
Accendo il gas e, mentre aspetto che il caffè passi, metto a mollo la tovaglia macchiata di cioccolato.
– Caffelatte con biscotti?-
Fa cenno di si con la testa.
Gli accarezzo i capelli. Gli piace, ma non apre gli occhi.
Gli piace anche il caffelatte, che gli ricorda la zuppa da bambino, anche se in questa ci metto i biscotti Plasmon, gli stessi che sminuzzavo nel biberon della figlia grande, quando era piccola.
Con gli altri due figli, qualsiasi tipo di biscotto andava bene.
– Domani arriva Isa. – Sorride.
-Ti ricordi Isa come era piccola quando è nata?
Certo che si ricorda. Un kilo e nove scarsi, che paura che non ce la facesse a crescere! Adesso ha un marito, 4 figli, 1 genero e 1 cane di cui occuparsi, ma appena può, se ne arriva a trovare suo padre.
Continuo:
– Cosa hai sognato stanotte? –
Non risponde, ma apre gli occhi.
– Vuoi che ti racconti cosa ho sognato io? – Fa cenno di sì.
In realtà io non ho sognato niente.
Cerco tra i ricordi qualcosa che potrebbe risvegliarlo un po’.
– Ho sognato, pensa, ho sognato che eravamo a Vienna, in una trattoria con una grande stufa, proprio come quella dove eravamo andati tanti anni fa. Era il primo viaggio lungo che facevamo con la 500. Te lo ricordi? –
Tiene gli occhi aperti e annuisce. Il ricordo confluisce nel sogno.
– Ci avevano portato dei formaggi deliziosi e un vinello che andava giù come niente. Al tavolo vicino al nostro c’era un vecchietto che si sforzava di raccontarci con qualche parola di italiano che lui era stato in guerra, che amava una ragazza di Treviso, mi pare, e che sapeva una canzone. Aveva cominciato a canticchiare e io gli ero andata dietro, ripetendo il motivo.
– E’ vero…cantavi e… bevevi! E poi volevi portare il vecchietto con noi. – La voce è incerta, bassa, un po’ roca, ma che bello, ricorda quest’episodio così lontano.
– …Stai tranquilla, a Isa non glielo racconto. –
Ride.
Poi, serio, mi afferra una mano.
– Ma quando Isa riparte per Como, tu resti con me?
Ecco, sono questi i momenti che rendono preziose e ricche le mie giornate.
Oggi è una di quelle.
Il campanello del cancelletto sul cortile. Una scampanellata come solo i bambini o i corrieri di Amazon… ma quelli suonano alla porta sulla strada. E’ il nostro nipotino più piccolo che torna dall’asilo, che sorpresa.
– Nonna, se sei capace a mettere la musica sul telefonino, vi canto la canzone della recita di Natale. –
Ma il nonno è stanco e chiude gli occhi.
Si addormentava anche quando a recitare erano i nostri bambini. Quando ci raggiungeva nel cortile della cascina in Langa, dove io passavo parte delle vacanze con figli, zii, cugini, nipoti. Alla sera era impossibile rinunciare allo spettacolo di arte varia per cui gli attori si erano preparati tutto il giorno, tanto più che lui come ospite d’onore aveva diritto a un posto in prima fila. Mi faceva tenerezza quando cercava di nascondere gli sbadigli e poi pian piano si lasciava scivolare nel sonno, indifferente a piroette, danze, storielle, canti… d’altronde il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi all’alba per tornare al lavoro.
Il nipotino è deluso.
-Allora vengo domani. –
– Domani. –
Forse domani sarà più riposato, forse sarà come stamattina, quando ricordava Vienna e riderà di nuovo e mi chiederà – ma tu non vai via quando Isa riparte? – E mi stringerà forte la mano.
Speriamo.
Nella notte è nevicato e l’orto è sommerso di bianco fin quasi a seppellire la botte. Jean guarda dal vetro appannato della finestra della cucina: deve attraversare il cortile e raggiungere il pollaio per vedere se ci sono uova. Succede di rado che le galline facciano qualcosa in inverno, ma non è andato nei giorni scorsi sebbene sia un suo compito. Non ha voglia di uscire, fa freddo e ci sarà da bagnarsi con tutta quella neve.
Al piano di sopra Albert si è appena svegliato: resta rintanato sotto le coperte, ma si accorge che la luce del mattino è diversa e deve essere cambiato qualcosa. Non capisce che è neve e immagina invece una giornata di sole particolare. Sperava nel brutto tempo per non dover dare una mano con i cavoli e per poter correre dai vicini a vedere se erano nati i cuccioli di Frieda, la cagnetta bianca.
Marie si gode il silenzio particolare di quella mattina di dicembre mentre aggiunge legna alla stufa. Sarà un problema arrivare in paese e anche solo andare dal casaro per portare il latte. Meglio così: non rischia di vedere quel garzone che le sorride in maniera troppo sfacciata. Guarda fuori. Una gazza nera si è poggiata sulla porta dell’orto.
Sono i figli del fattore e vivono nella cascina in questo angolo di campagna normanna da quando sono nati. Orzo, meli per il sidro, qualche animale e un orto grande. La mamma non c’è più da tempo, ma la famiglia ha trovato un suo equilibrio. Dopo la colazione il papà li riunisce intorno al tavolo della cucina per spiegare una cosa importante: il fuoco della stufa fa il suo rumore e il momento sembra solenne. L’uomo parla adagio e spiega con pazienza che il proprietario dei terreni è in difficoltà e per questo ha deciso di vendere tutto il podere. In primavera loro se ne dovranno andare e lasciare quella casa e quei campi, le cose sono ormai decise. Si sposteranno sul mare: a Le Havre ci sono molte possibilità di lavoro, lo ha scritto un cugino che si è trasferito lo scorso anno da Rouen e dice che si trova bene. I ragazzi si guardano e non sanno bene che cosa dire. La grande si avvicina all’acquaio per rigovernare le stoviglie, Jean va a prendere la sua giacca per uscire mentre il più piccolo sale sulle gambe del padre che è rimasto in silenzio sulla sua sedia.
A volte non ci rendiamo conto di che cosa è davvero importante ed è come se guardassimo le cose attraverso un vetro appannato: gli occhi si fermano alla superfice sfumata, alle forme che ci restituisce, ai colori imprecisi, alle gocce di umidita che rigano il riquadro. Poi qualcuno da un colpo di straccio alla finestra e tutto torna nitido permettendoci di mettere a fuoco ciò che conta davvero. E’ una sorpresa che cambia le prospettive e improvvisamente quello che era un problema non lo è più, si trovano certezze o decisioni: la realtà al di là della finestra è sempre la stessa, non è il futuro che cambia, ma il modo di vederlo.
Tornando dall’orto Jean si chiede se in città nevica come in campagna: non gli piace tutto quel freddo e quell’umido, però ora si è abituato. E poi quando la neve si assesta si possono fare scivolate fantastiche o addirittura pattinare allo stagno ghiacciato. E comunque quando torna la primavera ci sono prati e campi e spazi che forse in città dovrà soltanto immaginare.
Albert ha avuto il permesso di andare dai vicini, ma resta sull’uscio: ha quasi timore a pestare tutto quel candore e poi non sa se gli importa ancora di quella cucciolata. O dell’asino del vicino che si lascia accarezzare e a volte sembra sorridere. O delle oche che gli vanno incontro cantando una musica minacciosa, ma poi si calmano quando lo riconoscono. E si chiede che animali potrà vedere al mare quando lasceranno la fattoria.
Marie è riuscita a portare il latte al casaro, ma il garzone non c’era: peccato perché questa volta avrebbe voluto parlare. Lo avrebbe salutato. Forse gli avrebbe raccontato che in primavera si sarebbe trasferita. Forse avrebbe soltanto commentato tutta quella neve. Certo Le Havre non è lontana, ma una volta lasciato il podere sarà difficile pensare di ripassare da queste parti. Quando torna nel cortile si ferma per ammirare tutto quel bianco.
Sulla porta del recinto la gazza non c’è più. E’ volata via.