C’è una lunga vetrata ricurva. Dentro c’è un bar.
Dentro al bar c’è Linda, perché lei si chiama Linda. Lui è Rudy, lo si capisce dal Borsalino adagiato morbido sulle orecchie. Le sta seduto accanto ma non è sera. L’altro, lo vediamo di spalle, ha un nome tutto suo e se lo tiene per sé. Per noi è l’Ingrugnito, anche se non ne scopriremo mai il volto. È quello abbarbicato sul secondo sgabellone da sinistra. Gli altri cinque trespoli, sulla sua destra, sono vuoti, così come il primo.
È il vuoto, che resta negli occhi. Vuota è la vetrata del bar, vuota è la strada, vuota la casa di fronte, le finestre. Aperte e vuote. È estate, si direbbe. Vuota da pensare la porticina in fondo al bar, si capisce che di là non c’è nessuno. La cucina.
Troppa luce. Eccessiva per essere una notte del ‘42.
C’è tanta luce che si vedono i particolari. La macchina per scrivere esposta nella vetrina di fronte. O è un registratore di cassa. Il sale e il pepe, lo zucchero, la senape, i tovagliolini di carta sul bancone. Due grandi macchine da caffé, tre tazze. C’è un bicchiere bevuto tra il quarto e il quinto sgabello. Qualcuno se n’è andato. L’Ingrugnito di spalle, lo si intuisce appena, sta svuotando il suo. li Borsalino questa volta è calzato di fretta, le tese maltrattate, di chi se lo gira abitualmente tra le mani. Anche la giacca è più goffa. Sformata da una pistola nella tasca destra, o da qualche manciata di fiches dimenticate prima della disfatta. Dentro, nel bar, c’è odore di wurstel e di caffé lungo. Buono. L’Ingrugnito sente soltanto il bourbon. L’ha nel naso, giù per i polmoni, ristagnato in fondo all’ esofago. Bourbon alto una spanna e un malessere grande come tre cubetti di ghiaccio. Shit. Rudy. Ha la sigaretta tra le dita ma non sta fumando. È l’ultima e questa stronza s’è dimenticata di comprarmele. Anzi, peggio. Ha sbagliato la marca. Cosa si può pretendere da una che ti conosce da tre giorni. Quella è il tipo di femmina che fa prima a imparare tutto il resto che le tue Lucky Strike senza filtro. Meraviglia del creato. Certe donne di Brooklyn nascono così. Ti succhiano il cervello dalle mutande. Mani da arpista, testa da dattilografa. Mai lavorato, la ragazza, si capisce da come si è svegliata stamattina.
Rudy sa di sapone Colgate, di brillantina e di lucido nero da scarpe rimediato per strada.
Caffè della staffa, ché questa se va avanti così mi ammazza di paradisi. Son mica Gable. È l’ultima notte, giuro. Domani cambio albergo e al telefono del giornale mi nego. La signorina ci è abituata di sicuro, alla seconda telefonata lo capisce da sola che deve smammare. Ragazzo, hai del fuoco?
Il terzo uomo si chiama Jerry, viene dall’Irlanda.
Avrebbe i capelli rossi ma li ha persi per un dispiacere che non può dire a nessuno. Lui se lo terrebbe ancora dentro ma da qualche tempo l’ha chiuso di là, nel barattolo del sale. La sua Madonna lo sa e gli basta. Jerry in testa porta una bustina bianca, è lui il barista. Intanto sta lavando un bicchiere. Guarda l’Ingrugnito perché ce l’ha di fronte e sa bene se il calice deve essere riempito di nuovo. O forse guarda fisso la luce fuori, troppa, di quella notte di New York. Non si è nemmeno accorto dell’altro bicchiere, quello bevuto da ritirare. L’ha interrotto Rudy. Perché Jerry stava dicendo di qualcosa di vuoto e molto molto importante. Il baseball. La guerra che è un male necessario, come le donne, d’altronde. Non ci fossero i morti sarebbe più
divertente della boxe, quasi quasi. Non piove da un mese. La radio, ci sono troppe stazioni. No, non ce li ho i fiammiferi, signore. Me li deve aver portati via quello di prima, glieli avevo appoggiati lì dove c’è il bicchiere. Casablanca, quello sì che è un film. C’è lei, la bionda, come si chiama, Ilse. Bella stronza.
L’lngrugnito di spalle non fuma. Almeno, non fuma adesso. Gli fa schifo anche l’odore, dopo una giornata così. I fiammiferi ce li ha in tasca, dall’altra parte. Che restino lì, tranquilli. Che vadano tutti a farsi fottere. Guarda che bell’olio fa il ghiaccio che si scioglie nell’alcol. E poi quello accompagnato mi sta sul cazzo solo a guardarlo. Legnoso. Fighetto. Si tiene su con l’amido. Che non fumi, visto che ci ha già vicino quella lì. E che la smettessero di farsi ditino con i mignoli.
Ma lei, lei dove l’ho vista. Magra, troppo magra. Mai scopata, questo è quasi certo. Cipria. Bistrata. Acqua di colonia. Labbra cremisi. Ne ho vista così di gente così, in giro. Ragazze farfalla che volano una notte. Ho finito la benzina, dammene un altro, ragazzo.
N.Y. 1942. Da noi c’è la guerra, di là Phillies only fìve cents. Un’insegna che si legge appena. La luce, ce n’è poca. Che ore sono. Nessuno guarda l’orologio che è là, in alto a destra, fuori dal quadro.
Linda ha in mano i fiammiferi, li ha trovati. Se li rigira tra le dita, ma forse sta solo controllandosi lo smalto. Magari accenderà la sigaretta a quel Rudy. Sa benissimo che sarà l’ultima notte. L’ha capito quando ha sbagliato con le Lucky Strike, Rudy non le ha detto niente, si è sistemato appena il Borsalino. Poi: si va a bere il caffè, prima? Linda lo sa, da domani sarà sola di nuovo. Più sola.
Perché è Linda la più sola di tutti, lo si capisce dal vestito che la gela. Lo si capisce da Rudy con la sua sigaretta fredda, dall’Ingrugnito con le sue fiches, dal solerte Jerry col suo barattolo di là in cucina.
Prego, signori, chiudiamo.
Tra dieci minuti ci sarà meno luce e forse meno vuoto intorno a quel bar vuoto. Ma questo nel quadro di Edward Hopper non c’è ancora. Non ci sarà mai.
Nighthawks, Nottambuli. I quadri valgono lo stato d’animo di un attimo. Il resto ce lo mettiamo noi.