Uno sguardo all’orologio al polso. Mi volto e osservo, fuori dalla finestra, la luce del giorno come a confermare ciò che l’orologio mi aveva accennato qualche secondo prima. Sorrido. Non sono capace di capire che ora è della posizione del sole o dalla lunghezza delle ombre, ma annuisco serio, ho ancora tempo. Infilo le scarpe, la giacca e infine le cuffiette nelle orecchie. A tempo di musica scendo i gradini e poco dopo sono fuori. Aria fredda, pungente, mi sferza e mi guida. Dove? Non lo so, in giro per la Città. Canticchio un motivetto coinvolgente. Sbaglio molte parole del testo quindi mi limito a mugugnare imitando i suoni delle strofe, delle battute. E intanto osservo. Case, macchine, lampioni… Persone. Molte camminano guardando a terra, probabilmente in cerca di… soldi? Per evitare buche o cacche? Non lo so. Ma mi diverte ipotizzare il peggio. Sorrido. Altri mi passano accanto intenti a discutere con un conoscente, un amico, la moglie… il figlio. Troppo concentrati per vedermi in anticipo e deviare dalla loro rotta, ma un’istante prima della collisione scartano con un movimento della spalla e proseguono come nulla fosse. Sorrido. La stessa persona qualche giorno prima era indaffarata nello spostare un divano, grosso e ingombrante, e con lo sguardo supplichevole cercava un aiuto da un passante. Tutti lo scartavano. Sorrido. La gente non vedeva lui in difficoltà, ma solo un divano da schivare agevolmente per poi proseguire. La musica mi fa pensare alla società. La musica dovrebbe unire. Che bella invenzione. Come quasi tutto quello che ci circonda i mezzi per divulgare la musica son nati nel XX secolo, il mio secolo. La Radio, i primi Jukebox, i CD e i formati digitali. Tutto per unire le persone e non lasciarle più sole. Anche la tv, un’invenzione straordinaria, accomuna milioni ti persone in ogni istante della giornata. Tutti lì a guardare uno schermo, seduti in una stanza, soli, ma in compagnia di milioni di persone… Sorrido. Un controsenso. Sorrido amareggiato. Mi viene un pensiero. Meglio da soli in compagnia di milioni di persone che non si conoscono o in compagnia di una persona che finge di essere interessato a quello che hai da raccontare? Sorrido perché non ne ho idea. Alzo una mano e saluto con un cenno. Il tizio in ciabatte intento a buttare la pattumiera mi guada confuso. Non mi ha riconosciuto. Lui e il suo autobus una volta a settimana mi accompagnano dal lavoro fino a casa, non sapevo abitasse in zona. Mi fa strano vederlo non in divisa, alla fine anche lui butta la pattumiera come fanno tutti. Sorrido. A pensaci bene Postini, Banchieri, Muratori, Calzolai buttano tutti la pattumiera. Sorrido divertito da quell’immagine fantastica di loro in coda con la pattumiera in mano, sguardo assente, che un passo dopo l’altro si avvicinano al Bidone. Agito la testa per quell’immagine… Utopica? Distocica? Giro l’angolo e quasi vengo colpito da un pallone. Un gruppetto di bambini gioca poco più avanti. Faccio un paio di palleggi in scioltezza e rimando a loro il pallone con un passaggio completamente sbagliato. Il loro stupore lascia lo spazio a incredulità e acido sarcasmo. Sorrido. Forse una risata sarebbe stata meglio o forse sarebbe stato meglio farli correre fin lì per recuperare il pallone. Uno sguardo al futuro me li pone davanti ad uno schermo con manopola in mano e cuffie da Gamer in una sorta di piazza virtuale tutti connessi, con nomi di fantasia a parlare tra di loro quasi come fossero fratelli, senza sapere l’uno dell’altro cose come: colore degli occhi, lunghezza dei capelli, se si mangia le unghie o se in faccia è ricoperto da lentiggini. Fidandosi ciecamente dei racconti sentiti attraverso le cuffie da Gamer. Sorrido mesto. Così uniti e alla fine così soli. Si parla di social, di collegare il mondo in pochi click e poi… gente che finge di essere qualcun altro per paura di essere giudicato e infine isolato. Ma isolato da cosa? Da un mondo di informazioni digitali sempre dubbie? Sorrido di nuovo, questa volta mesto. Meglio una persona che finge di ascoltare o una persona finta? Mi guardo intorno, mi sento un’entità fuori posto. Da dove vengo? Da dove veniamo tutti? Apparteniamo tutti a questa terra o no? Ogni tanto mi sento un essere incorporeo in una macchina fatta di carne e ossa. Una luce rossa proveniente dall’alto mi suggerisce che è ora. Non guardo l’orologio per sapere che è il tramonto. È ora. Mi sento in sintonia con tutte le persone sole che non sanno da dove vengono e ancora meno dove andranno. Entro in casa, così vestito apro un cassetto e la vedo. Una corda con un nodo. Allungo una mano e la tocco. Ruvida, solida… reale. Due colpi alla porta mi spaventano. Chiudo il cassetto, mi volto e apro la porta di casa. Due occhi scintillanti mi guardano. “Ola” mi dice la voce famigliare del mio migliore amico “se non ricordo male oggi è il tuo compleanno”. Io lo guardo per un breve momento poi abbasso gli occhi sulle tre pizze e le quattro birre. Sorrido. “Yup” rispondo. “Bene, allora raccontami come si sta con un anno in più”. Sempre sorridendo gli faccio largo e accompagnato dall’aroma delle pizze calde entra come se fosse casa sua. Infondo per quanto possiamo sentirci soli non lo saremo mai per davvero. Mentre chiudo la porta mi sovviene la strofa della canzone che ascoltavo poc’anzi. Ah look at all the lonely People. Con un click la porta si chiuse.

Marco se n’è andato e non ritorna più. La solitudine.
Si, Marco se n’è andato. Ma anche Chiara, Matteo, Sofia. Giuseppe, Michela, Giorgio, Antonella. E non ritornano più.

Sono Sara. Ho 40 anni e sono sola.

Come tutte le persone sole.

La solitudine sociale è quella drammatica sensazione di cui siamo figli noi che siamo nati a scavalco tra due secoli. Ma anche di chi il XX secolo lo ha letto solo sui libri.
Ti capita di camminare per la città, queste grandi città alienanti, in mezzo a centinaia, migliaia di persone. E di sentirti sola.

Come tutte le persone sole.

Perché non è la gente che fa la differenza. Se soffri di solitudine sociale, sei tu che fai la differenza.

E la differenza la puoi fare cercando un angolino, nella stessa città che lotta per alienarti.
Ti fermi, preferibilmente all’ora del tramonto. Magari in un posto tranquillo, con un bel panorama. Il mare. La montagna. Un prato. Un fiore.
Respiri profondamente. Lasci i pensieri fluire, ma solocosebelle. Ti immergi, ti lasci avvolgere.
Finisci per sentirti parte di un tutto, che va oltre le persone.

Anche quelle sole.

Le campane suonano. Gli occhi bruciano. Il parroco ci invita a entrare nella chiesa. Prendo posto in un banco, mi lascio cadere su di esso. Chiudo gli occhi, mia madre mi passa un braccio intorno alla schiena e mi fa avvicinare a lei. Mi stampa un bacio sulla fronte, non riesco a trattenere i singhiozzi e mi nascondo nell’incavo della sua spalla per piangere indisturbata.
Mi ricompongo. Osservo la chiesa. Affollata, piena di gente. le donne, avvolte in tessuti color pece, nascondo i singhiozzi dietro ai fazzoletti candidi. Gli uomini hanno il volto serio. Tutti si sentono come me. Soli.
Ci alziamo, voltiamo il capo verso la bara che sta entrando nella chiesa. Faccio respiri profondi. Quando mi passa vicino, la scritta mi mozza il fiato. Data di nascita:19-5-1923. La data della morte: 26-7-1942. Aveva solamente diciannove anni.
Il parroco prende a parlare, con voce rotta dal pianto, che non riesce a trattenere. Non riesco a immaginare, che il corpo privo di vita del mio amato, sia in quella bara.
Eppure, è così. E mi sento immensamente sola. Mi sento come un bicchiere senz’acqua, come un piatto senza cibo, mi sento incompleta. Credo che anche lui si senta solo. Non solo chi rimane soffre la solitudine. Sarebbe bello, poter essere soli insieme.
Lui lasciava da parte i miei difetti e si concentrava sui miei pregi. E ora che non c’é più, io come posso fare?
Quando ci siamo separati, quando lui si è arruolato, mi ha lasciato in mano un dono. E mi ha chiesto di aprirlo, ma non di fronte a lui. Credo che non volesse che un momento tanto intimo, fosse condiviso con tutta la città, venuta a salutare i giovani in partenza per la guerra. Poi, prima di partire, mi ha stretto in un forte abbraccio, mi ha fatto volteggiare tra le sue braccia e mi ha stampato un bacio sulla fronte.
Proprio come ha fatto mamma al suo funerale.
Ho aperto il pacchetto, quando sono tornata a casa. Conteneva una scatolina, rivestita in un velluto rosso fiammante. E dentro… vi ho trovato un anello. La sua promessa di amore eterno. Ma non posso averne conferma. Perché lui, non é più qui. Non mi accorgo neanche che la bara è stata portata fuori dalla chiesa. E che il suo funerale è terminato. Esco, traballando.
-Mamma, non ce la posso fare a vedere la sua bara che cala nella terra. Se vedo quell’orribile spettacolo, potrei seriamente svenire. Posso andare a casa?-le chiedo, le lacrime che sembrano voler uscire a tutti i costi.
Mia mamma acconsente.
-Fai attenzione-mi ricorda.
I miei piedi si muovono da soli, senza essere comandati o guidati. Loro sanno dove andare. Conoscono il mio dolore e mi portano in un posto caro. Che era caro pure a lui. La persona che mi ha rubato il cuore. Con i suoi modi sfacciati, con le sue stupide battute e con la sua presenza, che ora mi è indispensabile.
Percorro le strade della mia città, della nostra città. Ma farlo, senza che lui che mi tiene la mano, è totalmente diverso. La nostra favola è finita. Ed è stata la cosa più bella della mia vita. Lo ricorderò per sempre. E mi sembra giusto, che la nostra storia finisca dov’è iniziata. Sotto una quercia, guardando il tramonto. La città ai nostri piedi.
Vicino a quell’albero ricordo litigate, risate e soprattutto, il mio primo bacio. Le sue soffici labbra sulle mie. Non dimenticherò mai la sensazione. Né le farfalle che si agitano nel mio stomaco, ogni volta che immagino il suo viso, né tutti i pomeriggi passati a camminare per la città tenendoci la mano, scherzare, lasciando da parte i disastri del mondo intorno a noi. Perché noi eravamo noi. Nella nostra bolla di amore e dolcezza infinita. La nostra complicità era più unica che rara. Me lo ripeto, guardandomi l’anello, saldo nell’anulare destro. Mi siedo, i rami della quercia che mi sovrastano. Riesco a vederla, la finestra di camera sua. Quando, sotto la nostra quercia me la indicò, il mio cuore faceva i balzi.
Lo immagino ancora lì, a contemplare il tramonto, guardando verso di me, che lo osservavo seduta sotto la quercia.
Passo la mano sopra la nostra incisione. Tutta opera sua, ovviamente. Aveva intrecciato le nostre lettere, vicino a esse un cuore e un infinito. Mi sento sola, ma non sola come le persone che non hanno mai avuto qualcuno che le facesse sentire parte di qualcosa. Mi sento sola, come chi ha perso la persona che amava di più al mondo.
La chiesa, in mezzo alla città, dove avrei voluto celebrare il nostro matrimonio. La chiesa, dove gli ho detto addio per sempre. Non sono sola, perché il suo ricordo vive con me. Il mio corpo è solo, ma la mia anima è ancora tra le sue braccia, quando ci siamo salutati.
Faccio un buco nel terreno, ci metto la scatola, dentro cui ho riposto l’anello che lui mi aveva regalato. In questo modo rimarremo per sempre qui, in questo posto e in questo tempo, il nostro amore e la nostra solitudine, condivisi in quell’oggetto. Perché in fondo, la solitudine è ascoltare il vento e non poter raccontarlo a nessuno.

La prima volta che ascoltai “Eleanor Rigby” ero molto giovane, credo intorno agli 11 anni: stavo vivendo la mia prima vera grande infatuazione, quella per i Beatles. John Lennon era stato ucciso pochi mesi prima ed era scoppiata in casa nostra una vera beatlesmania di ritorno, sull’onda emotiva della morte di Lennon. Con mio fratello cominciammo a cercare ogni forma di notizia su quel gruppo mitico, ogni immagine, ogni disco a 45 o 33 giri; iniziammo a leggere tutto ciò che lo riguardava, a confrontarci su quanto scoprivamo, a ricopiare i testi delle canzoni per impararli e cantarli insieme. I primi motivi che ci affascinarono erano quelli facili, quelli degli “yeah yeah yeah”, ritmati e orecchiabili; io amavo particolarmente “Help”, che ricordavo di aver ascoltato spesso da bambina nella radio che la mia tata teneva sempre accesa mentre faceva le pulizie, credo verso la metà degli anni Settanta. Ma quando ascoltai “Eleanor Rigby”, qualcosa cambiò in me a livello di consapevolezza musicale ed insieme poetica, perché riguardava anche la musica classica e la tradizione fusa con la modernità e con la poesia. Quella canzone accese in me la certezza che i quattro di Liverpool erano stati dei geni.
L’infatuazione divenne amore, vero amore bruciante che caratterizzava le mie giornate. Ma io ero un’anomalia: chi poteva capire una ragazzina delle medie che viveva in funzione di un gruppo pop che si era sciolto più di 10 anni prima e che non sarebbe più esistito in quanto ormai privato di una delle sue anime? E poi nella mia piccola città di provincia, così periferica, così attardata, così lontana da tutte le novità, non c’era spazio per la mia passione: ricordo che aspettai per mesi che in uno dei tre cinema cittadini venissero passate le riedizioni restaurate dei film dei Beatles uscite vent’anni prima… Ma non successe mai. Quando si è preadolescenti non è facile poter vivere un amore così totalizzante ed insieme essere capiti: infatti le mie compagne mi guardavano stupite e perplesse per il mio entusiasmo, i miei amici maschi mi prendevano decisamente in giro. Ci capivamo solo io e mio fratello, che, per carattere, era molto più contenuto di me nelle sue esternazioni, ma anche molto più preparato musicalmente, perché più grande e perché aveva un compagno di classe che viveva di musica, col quale si confrontava e con cui ascoltava ogni tipo di composizione di qualità. In casa nostra iniziarono a suonare dischi bellissimi, a girare spartiti di canzoni e ad entrare degli strumenti musicali: una chitarra (la mia) e una batteria (la sua).
Fu un periodo bellissimo, pieno di entusiasmo e di scoperte quotidiane; si trattava di un vero e proprio apprendimento. Dopo la scuola, nel primo pomeriggio, mi chiudevo in salotto ad ascoltare i dischi con le cuffie e cantavo con tutta la mia passione le mie canzoni preferite, scandendo le parole con la maggiore precisione possibile (io che non sapevo l’inglese, ma che cercavo di comprendere ciò che i testi significavano); oppure strimpellavo la chitarra da autodidatta per poter accompagnarmi nelle esecuzioni. Arrivarono presto regali graditissimi dalle amiche più attente e dai parenti vicini; in particolare ricordo un grande canzoniere (che conservo ancora) con tutti gli spartiti delle canzoni dei Beatles in ordine alfabetico, con parole, note e accordi, che mi permise di imparare alcune delle mie preferite: me lo regalò papà, felice che i suoi ragazzi si accostassero alla musica come aveva fatto lui fin da bambino. Poi cominciai a cantare più seriamente; divenni sempre più precisa nelle sfumature della voce e attenta alla pronuncia; perfezionai alcuni passaggi difficili e iniziai a interpretare veramente le canzoni che amavo tanto. Come per gioco, con mio fratello e il suo amico mettemmo su una band, la “Sergent Pepper”: non c’era niente di più esaltante di quei pomeriggi passati a suonare e cantare con tutta la nostra forza e la nostra passione nello scantinato con i cartoni delle uova per insonorizzare le pareti. Alcune canzoni ci riuscivano particolarmente bene: la mia voce delicata ma decisa era una bella novità rispetto alle versioni originali, i miei compagni di avventura mi accompagnavano coi cori, dicevano che ero proprio brava. La notizia della nostra band così giovane e originale si diffuse in fretta nel nostro ambiente; in pochi mesi avevamo già messo in piedi un bel repertorio e fummo chiamati ad animare la festa di inizio estate dell’oratorio parrocchiale per un piccolo concerto nel tardo pomeriggio. Ci esercitammo moltissimo: eravamo emozionati e volevamo fare bella figura. I nostri cavalli di battaglia erano pezzi come “Hey Jude”, “Yesterday”, “Norvegian Wood”; ma con “Eleanor Rigby” era diverso: qualsiasi interpretazione risultava misera, inadeguata, perché privata dell’orchestrazione e dei cori. C’era una tristezza in quella canzone che ricorreva soprattutto in una parola ripetuta tante volte nei ritornelli binati: “people”; sapevo che voleva dire gente. E sapevo anche che la gente della canzone era “lonely”, sola. Paul McCartney lo cantava con uno struggimento che diventava quasi un’invocazione, esaltato dagli archi che rendevano la melodia ancora più solenne, e triste. Era impossibile anche solo ambire ad imitare a quella perfezione. Quindi decidemmo che non l’avremmo mai eseguita.
Ma poi arrivò la sera del concerto; i pezzi scivolarono via uno dopo l’altro, mentre noi ci scaldavamo e acquistavamo sempre più sicurezza. Verso la fine del nostro piccolo spettacolo qualcuno dal fondo urlò “Eleanor Rigby”; molti altri applaudirono. La richiesta era chiara: ma come avremmo potuto fare? I miei compagni mi guardavano con insistenza e così mi decisi: presi la chitarra e, da sola, cominciai ad accompagnarmi semplicemente con gli accordi e a cantare sommessamente la mia canzone preferita. Fu un successo. Un’emozione che non ho dimenticato.
Il tramonto fuori ci colse con un’esplosione di colori.

Da piccola, davanti allo specchio e con i vestiti di mamma, lo immaginavo proprio così il mio matrimonio…2, 3… l’abito era quello…5, 7…i fiori e i cori anche, addirittura le due lacrime scese lentamente nel pronunciare quel “sì” potevano essere le mie…11, 13…solo la sposa era diversa e forse un po’ più felice. Era emozionatissima, aveva percorso l’altare a braccetto con suo padre e, oltre allo sposo, la aspettavano tutta la sua famiglia e le damigelle che, come me, non riuscivano a trattenere le lacrime…17, 19…ogni volta assisto alla cerimonia dall’ultimo banco e ogni volta mi emoziono perché so che quella sposa sta vivendo uno dei giorni più importanti della sua vita, uno dei giorni che aspetto ancora di vivere.
Chissà come ci si sente ad avere il proprio posto accanto a qualcuno…23, 29…a dividere con lui la propria esistenza, la coperta, i sogni e il barattolo di marmellata…31, 37. Chissà come ci si sente ad avere qualcuno che si occupa della colazione, della tua paura del buio, della torta di compleanno e del tuo sorriso ormai stanco.
Qual è il mio posto? Me lo chiedo spesso, soprattutto quando resto sola con me stessa, come adesso, come sempre…41, 43…in questi momenti la testa si riempie di innumerevoli pensieri scanditi dai battiti cardiaci che risuonano nel petto e, abbandonata la realtà, mi rifugio nei ricordi…47, 53… eccone uno.
Qualche anno fa lessi un dialogo di Platone, il Simposio, e scoprii che gli antichi greci credevano che una volta gli umani avessero due teste, quattro braccia e quattro gambe…59, 61…erano felici e completi, tanto che decisero di ribellarsi agli dèi e, per punizione, furono divisi in due da Zeus e dispersi…67, 71…da allora si dice che ognuno di noi sia condannato a vivere infelice alla ricerca dell’altra metà della sua anima. Confesso di averla cercata a lungo la mia metà, in ogni angolo della CITTÀ …73, 79…tra i sedili sporchi del tram e nelle strette cabine telefoniche…83, 89…sotto gli sgabelli vuoti dei bar e nei rapidi baci sulla guancia che la GENTE si scambia in stazione…. 97, 101…Poi padre McKenzie, anche lui non ha un posto, mi disse che lui la sua metà non l’aveva mai cercata perché si riteneva assolutamente intero e felice e aveva imparato a bastarsi…103, 107.
Devo ammettere che mi ha fatto riflettere perché voleva dire che potevo essere io il mio posto; così ho provato anch’io a bastarmi, ho provato a cercare in me stessa ciò che non trovavo altrove e pensavo di esserci riuscita…109, 113…Poi però, succede che tutte le sere mi siedo sul davanzale della finestra ad aspettare qualcuno che guardi il TRAMONTO insieme a me, succede che nella credenza ho il barattolo di marmellata tutto per me, succede che mi ritrovo qua inginocchiata a raccogliere e contare i chicchi di riso lanciati su una sposa che vorrei essere io… 127, 131. Forse arriverà davvero il giorno in cui a percorre questa navata ci sarò io, ma non avrei nessuno a braccetto e nessuno accanto a me con cui festeggiare…137,139…o forse io e la mia metà siamo destinate a vivere distanti senza incontrarci. Sapete, ho provato spesso a immaginarla: le ho dato una forma, un colore, un profumo e sono sicura di saperla riconoscere tra mille, di poterla percepire in qualche modo… 149, 151…
– “Eleonor, non hai ancora finito con quel riso? Se continui a contare i chicchi uno ad uno non finirai in tempo per la prossima messa! “, le sue parole percorrono tutta la navata, rimbombano contro la parete dietro all’altare e mi riportano alla realtà.
– ” Non si preoccupi padre McKenzie…sono arrivata a 157″, so che me l’avrebbe chiesto poco dopo.
– “Non ho ancora capito perché ti ostini a contare usando solo i numeri primi”, in realtà lo ha capito da tempo, come io da tempo ho capito che lui non ha imparato a bastarsi.
– “Per lo stesso motivo per il quale lei, padre McKenzie, si ostina a starsene seduto lì a scrivere le parole di un sermone che nessuno ascolterà”, si alza e se ne va.
Abbiamo molto in comune io e padre McKenzie… 163, 167…siamo soli insieme anche se non lo vogliamo ammettere…173, 179…e abbiamo entrambi un barattolo di marmellata da condividere, ma il mio è quasi finito.
Il vostro invece?…181, 191…

C’è una casa di riposo al 20 di Forthlin Road: corridoi bianchi e letti di metallo. Eleanor è stata ricoverata qui tre anni fa, quando si è accorta che non riusciva più a badare a se stessa da sola nella casa che era stata di suo padre. Ora divide una camera al primo piano della St George House da dove può vedere la strada: c’è una charity proprio di fronte alla finestra e qualche minuto fa due ragazzi si sono fermati a guardare un abito in vetrina. Bianco con piccole farfalle blu.

Lucy ha spinto la sedia a rotelle di Eleanor lungo il corridoio bianco, dopo averla accompagnata in bagno, l’ha sistemata davanti alla finestra della camera e ora pensa a quella donna che ha la sua età e non può più camminare. Le sembra una vita non dignitosa, addirittura non degna di essere trascorsa. E’ una situazione così triste che le ricorda la canzone dei Beatles uscita l’estate passata: stesso nome, stessa solitudine, stessa miseria.

Eleanor ha 47 anni e una malattia degenerativa che gliene concede pochi altri. Non si è sposata, non ha figli, qualche amico la viene a trovare più per compassione che per affetto. Eppure sorride, scosta le tende e dice a Lucy della coppia che è entrata nel negozio di fronte spiegandole che, secondo lei, il ragazzo vuole fare un regalo romantico.

“In una charity?” Pensa Lucy “Un abito usato? Capirai che romanticismo…” Blocca le ruote della carrozzina e si allontana. Il suo turno è quasi finito e può rientrare a casa dove ha un marito e un figlio. Il primo le è indifferente e teme di essere indifferente per il secondo. Non sempre ci si vuole molto bene in famiglia, però non è sola. Non vive in un sogno, non aspetta alla finestra come la povera Eleanor.

Eleanor è al tramonto dei suoi giorni: non è un gran tramonto con la casa di riposo, la carrozzella e tutto il resto, ma non si sente infelice: ripensa a quello che ha fatto e vissuto e agli anni che le sono stati concessi. Di lì a poco si dovrà congedare anche da quei pochi amici, ma è ancora contenta di vederli se passano ogni qualche venerdì dopo il lavoro. Sono i compagni di scuola e le ricordano il tempo dell’infanzia: da bambini hanno avuto un maestro eccezionale che ha insegnato loro cose meravigliose: pochi libri e tante passeggiate. E poi la musica. A scuola Eleanor ha imparato a suonare il low whistle e finchè le dita glielo hanno permesso ha continuato a farlo per conto suo. Ora è qualche anno che ha dovuto lasciar perdere, ma i compagni ancora ricordano che era brava e lo scorso Natale le han portato una foto di un concerto scolastico dove lei è in primo piano con il suo strumento.

All’ingresso della St George House una coppia insiste per entrare a fare una visita a un ospite anche se l’orario è terminato; il portinaio guarda Lucy che sta scendendo le scale e fa segno di lasciarli entrare. Lei esce, raggiunge la fermata e sale sull’autobus che la riaccompagna a casa. Appoggiata al finestrino pensa a tutte le persone sole in città e a cosa potrebbe preparare per cena. Non sa che intanto, a casa, la cucina è un disastro: suo figlio ha preparato cheesecakes da portare alla fidanzata e ha lasciato tutti gli ingredienti in giro. Deve aver rotto il frullatore e il gatto è saltato sul tavolo e sta leccando felice tutte le terrine sporche di formaggio e gelatina.

Anche Eleanor osserva una cheesecake: i due che son riusciti ad entrare oltre l’orario di visita sono parenti dalla parte di suo papà: c’è ancora qualche problema di successione con la casa di proprietà e per parlarne con lei hanno pensato di passare con un dolce per sembrare più simpatici. Eleanor adora le torte e ora contempla la sua appoggiata sul comodino senza lasciarsi turbare troppo dalla voce lamentosa del cugino John. E’ contenta. Per lei la felicità è un pezzo di torta. E’ un modo di dire che significa che essere felici non è difficile e ci vuole poco, ma Eleanor è anche golosa e tutto quello zucchero migliora il suo buonumore.

Richard, il marito di Lucy prova a riordinare la cucina e quando la moglie rientra la mette sul ridere commentando le romanticherie del figlio, il gatto sul tavolo e il resto, ma lei non sorride: sbuffa, si lamenta, dice che non sa cosa preparare e sale in camera a cambiarsi. Ha ancora più di quarant’anni da vivere, ma non saranno utili per garantirle la felicità.
I due ragazzi della charity sono entrati in un pub per ripararsi dalla pioggia: lui l’ha convinta a comprare l’abito con le farfalle blu, hanno negli occhi fiducia e soddisfazione. A Eleanor sembra di conoscere quei sentimenti: pensa alla fiducia di suo padre quando si è diplomata alla scuola di taglio e cucito, anche se poi non ha potuto confezionare molti abiti; ricorda la soddisfazione di quella volta che ha convinto Paul ad accompagnarla al cinema e sono usciti dalla sala sottobraccio, anche se poi lui si è messo con la sua vicina di casa che era più avvenente. Le torna in mente quella volta che è arrivata terza al torneo di scacchi della parrocchia: un’emozione incredibile! E non riusciva a capire come il vincitore potesse essere deluso perché sperava in un premio in denaro.

Lucy scende dopo la doccia e finisce di pulire la cucina. Suo marito è sul divano del salotto e la chiama per dividere gli avanzi della torta, ma lei non lo sente. Pensa che la felicità non le appartiene: è qualcosa che tocca a qualcuno e evidentemente non è toccata a lei, che sente poca soddisfazione per il suo passato e poca fiducia nel futuro. Domani è giorno di riposo, ma è previsto brutto tempo, le toccherà stare in casa.

Eleanor ha offerto una fetta di torta alla sua compagna di stanza che è sorda ma ha finto di capire la spiegazione sui visitatori. Sorride e Eleanor è contenta di quel sorriso: ha rinunciato a un po’ della torta, ma è soddisfatta della scelta. Pensa che la felicità sia una scelta o almeno sia anche una scelta, visto che spesso ci è dato di poter decidere. Le previsioni per il giorno dopo dicono pioggia e lei è contenta di poter stare al caldo a guardare la gente che passeggia in Forthlin Road cercando di indovinare chi entrerà nel negozio di fronte.