Eccomi qui a scriverti con le lacrime agli occhi, ancora. Non lo leggerai questo messaggio, non so neanche se il tuo telefono funzioni ancora, non so neanche dove sia. Voglio dirti che domani mi sposo. L’ho trovato, sai, quell’amore che tanto sognavamo insieme. L’ho trovato. Lui mi vede l’anima e abbraccia le mie cicatrici. Sai, quando lo guardo sento le farfalle nello stomaco, sento il respiro frasi veloce, sento il mio cuore battere forte, mi sento amata per quello che sono. Sono felice, ma vorrei che tu fossi felice con me.
Mi ricordo quanto sognavamo l’amore da piccole. Il principe azzurro, che poi alla fine non è sempre un principe azzurro, il mio è un ragazzo di città, che di azzurro non ha niente, e non è neanche un principe. Ma mi fa sentire una principessa, mi accompagna a trovarti al cimitero e mi tiene la mano quando ne ho bisogno, mi incoraggia a lottare quando mi sembra di non farcela, mi vede. Ti ricordi? Sognavamo che qualcuno ci vedesse, vedesse oltre quel corpo, non conforme agli standard delle riviste di moda. Io però ti vedevo così bella. Non vedevo con gli occhi di una società così abituata a giudicare dalla copertina, ma ti vedevo con gli occhi di una sorella, vedevo le pagine dietro alla copertina, e il tuo era un libro così bello. Ti vedevo perfetta così com’eri. Vedevo la tua anima, bella, pura, fragile, sensibile. Vedevo il tuo sorriso così bello, e la tua risata che rendeva felice anche me. Stare con te era mettere in pausa quel mondo che ci giudicava con uno sguardo, come se a definire una persona fosse la sua taglia, i suoi capelli, il modo in cui si veste. I chili che pesa. Quanto avrei voluto che quegli occhi si sforzassero di scendere in profondità, un poco di più, per vedere il mare che avevamo dentro.
Se al posto di fermare i loro sguardi li, in quel punto dove la pancia era un po’ gonfia, dove il naso era aquilino, dove le labbra erano troppo sottili, avessero visto quello che vedevo io, sarebbero rimasti meravigliati. Avrei voluto che capissero che non eravamo un numero sulla bilancia di troppo, non eravamo un corpo ribelle, eravamo esseri umani, persone con i loro difetti, i loro pregi, anime che volevano solo essere felici. Mi ci è voluto così tanto per accettare il mio corpo. Ma ci sono riuscita, sono un corpo come tanti, né difettoso né perfetto, semplicemente unico, mio. Sono io. Sai, ora sono un attivista, vado nelle scuole, parlo, faccio sentire la mia voce, perché è più forte dei bulli che ci aspettavano fuori scuola, è più forte delle lacrime, degli sguardi compassionevoli, è forte, e non ha paura di farsi sentire. mi batto perché tutti i corpi possano essere rappresentati, perché i corpi ribelli siano visti per quello che sono, corpi come tanti, perché gli sguardi si spimgano un po’ più in là, oltre la compassione o il disprezzo, oltre colpe che non abbiamo, oltre pregiudizi radicati nella società. mi batto perché sono stata zitta per troppi tempo, mi batto anche per te. Anche se non ci sei più. Ti penso dietro di me, a gridare nelle strade insieme a me, a darmi la mano e sorridere perché c’è l’ abbiamo fatta, perché siamo bellissime così, perché splendiamo. So che sei fiera di me. In questo vestito bianco mi sento bellissima, e anche tu lo saresti stata. Chissà, magari avresti potuto indossarne uno anche tu. Ma non sei qui. Dalla finestra vedo il cielo azzurro e so che sei dietro a una nuvola a guardarmi. Ma quanto sei lontana, a guardarmi da un’altezza irraggiungibile. spero tu sia finalmente felice lassù, quanto lo sono io ora. Perché c’è lo meritiamo.

Era il quarto, da settembre, che la invitava ad uscire. Fino ai diciassette anni e mezzo nulla, era stata invisibile. Ma adesso, dopo una dieta ferrea abbinata alla palestra, con quindici chili in meno si sentiva attraente. Anche di viso: l’operazione al mento aveva aggiustato un evidente prognatismo e il laser aveva risolto il problema degli occhiali. Qualche ritocco a naso e labbra avevano completato il miracolo, reso possibile la rinascita. Nella nuova scuola nessuno la conosceva e questo le aveva permesso di iniziare da zero. Con la scoperta di essere considerata carina. Il suo nuovo ragazzo doveva essere degno di lei: alto, bello, affascinante; che tutte le invidiassero. Come il biondino che all’intervallo le si era avvicinato sussurrandole all’orecchio: “Venerdì, 18,30, caffè Sauro”. E si era dileguato, lasciandole impressa l’immagine di due occhi azzurri e un sorriso spavaldo.

Anche Samuele stava vivendo con apprensione l’avvicinarsi del momento tanto atteso. Federico l’aveva spinto a buttarsi, anzi, aveva fatto tutto; lui non ne avrebbe avuto il coraggio, Troppo elegante, bella, ricca… Ma se una finestra si apriva sul suo avvenire, da quella finestra vedeva solo lei, con quegli occhi che di lacrime ne avevano già versate. Lo sapeva perché erano identici ai suoi. Strano. Lei così perfetta, lui… lasciamo perdere. Se il suo angelo gli fosse stato accanto, sarebbe riuscito a infrangere quella corazza e superare il limite apparente che li divideva. Che solo lo aiutasse, si augurò chiudendo la porta.

Il ciao alle sue spalle fece sobbalzare Giulia, appena entrata nel locale ancora semivuoto. Ma voltandosi già rossa sulle guance rimase delusa: “Samuele!”, lo salutò. Simpatico. Però non era il biondino. E perché rimaneva lì imbambolato? “Beviamo qualcosa, vuoi?”. “Ma come? Io sto aspettando…”. “Scusa, è che quell’invito è… da parte mia”. Giulia lo guardò meglio: non fosse stato per quell’andatura claudicante, non sarebbe stato male. Era molto popolare, a scuola. Ad alcune sue compagne piaceva. Gli aveva parlato, qualche volta. Ma non era alla sua altezza. Magari lo sarebbe stato prima della dieta, degli interventi… non ora, che poteva ambire a molto di più. Fece per andarsene, anche con un certo fastidio, quando i suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, intensi come non ne aveva mai guardati. Fu un attimo: rivisse i sorrisi beffardi, le occhiate di sufficienza, l’esclusione sistematica alle feste, le prese in giro più o meno velate. Ma di quale altezza stiamo parlando? Stava diventando anche lei come quelle smorfiose viziate che detestava? In una presa di coscienza impetuosa si girò verso Samuele, ancora sorridente, ancora lì. Per lei. Un altro corpo ribelle come il suo. Un’altra anima desiderosa di luce. Le era venuta voglia di raccontargli la propria storia, di conoscere la sua. “Allora rimani”, fece lui. Ma di nuovo le comparvero le risatine, le battute appena captate, lo scherno, questa volta di chi l’avrebbe vista con lui, zoppo. Non poteva sopportarlo. E corse via.

Samuele si lasciò cadere sulla prima sedia. Si era sbagliato: Giulia non era abbastanza ribelle da andare contro il mondo dei cliché, delle riviste patinate da cui sembrava provenire. Era di nuovo solo, ma forse non del tutto. Aveva uno sguardo dentro di sé, che gli avrebbe tenuto compagnia – o magari l’avrebbe tormentato, chissà. Ma lui, che era andato oltre ogni finzione, sapeva che le loro anime si erano conosciute. E allora era solo questione di tempo, e si sarebbero ritrovate. Altrimenti, che ci stava a fare il suo angelo?

Mi guardava con occhi vuoti.
Evidentemente per lui non ero altro che un numero, uno dei tanti che avrebbero dovuto fare un intervento chirurgico per rimuovere qualcosa di anomalo, di sbagliato, di mal funzionante. Ma ero io: ero tutto per me; e quell’intervento avrebbe condizionato le mie settimane future, forse anche i mesi. Mi sentivo sottosopra.
Avrei voluto che il suo sguardo andasse a fondo, scavasse dentro di me in quella parte in cui avevo bisogno di essere visto. Mi aspettavo un’indagine umana che portasse ad una scoperta, quella che avrebbe rivelato a tutti che si erano sbagliati, non ero malato, andava tutto bene. E invece i suoi occhi si spostavano rapidamente sui fogli che avrei dovuto firmare, senza alcuna volontà di stabilire un contatto personale con me (e questa, di certo, era una scelta).
Firmai, mi alzai e sentii il calore del mio sangue salire alla testa. Avvertii un leggero sbandamento e mi sedetti di nuovo. L’infermiera si fece più vicina per porgermi aiuto, mentre il dottore alzò lo sguardo solo per manifestare un senso di fastidio per una perdita di tempo -il mio malore- non calcolata. Capii che non potevo restare oltre in quell’ambulatorio e, facendomi forza, me ne andai fuori per cercare aria più pulita. Non stavo bene.

Il mio corpo era sempre stato tutto per me. Sano, ben proporzionato, armonioso… Aveva costituito ben più che un biglietto da visita, era stato l’elemento della mia vita cui dedicare le mie attenzioni e il mio tempo, con lo sport, il cibo, le attività quotidiane. Da piccolo ero stato il classico bambino da pubblicità: morbidi capelli biondi, occhi azzurri spalancati e curiosi, bocca piccola e carnosa; da ragazzo era stato piacevole capire di essere interessante e apprezzato da maschi e da femmine; da adulto avevo giocato con la mia avvenenza per condurre le relazioni personali e i rapporti sociali e professionali. Ora mi ritrovavo davanti ad un fatto non calcolato: il mio corpo non funzionava più alla perfezione. Dovevo prenderne atto e correre ai ripari. E non ero pronto. Il mio corpo si ribellava al culto che gli avevo dedicato, incrinava il mio potere con la malattia. Non riuscivo ad accettarlo.
Avevo un corpo traditore. Con un’anomalia (un gruppo di cellule che si ammassavano senza ordine) mi diceva che comandava lui. Un ammutinamento. Avevo perso il timone e mi sentivo in balìa delle onde. Chissà dove mi avrebbe condotto quel viaggio e chissà soprattutto se ne sarei uscito vivo.

L’aria era fredda e stava imbrunendo. Guardai in alto e vidi accendersi la luce ad una finestra. Immaginai una vita, una famiglia, la preparazione di una cena: qualcosa di normale, quasi banale, qualcosa di rassicurante. Tutto ciò che io non avevo perché non l’avevo mai voluto: mi era sempre sembrato che bastassi io con il mio corpo perfetto, la mia libertà, l’idea di essere invincibile. E ora invece ero solo davanti alla malattia, davanti alla paura, davanti all’incertezza di non sapere; mi prese uno sconforto tale che desiderai entrare in quella casa dalla luce accesa, in quella cucina dall’odore di minestra, in quel calore di famiglia che mi ero figurato… Mi diressi invece verso la mia auto pulita e alla moda; l’aprii, entrai, sentii tanto freddo.
Capii in quel momento che il viaggio che mi attendeva sarebbe andato molto più in profondità di quanto avrebbero fatto un bisturi o un laser: avrebbe valicato un’altezza che non avevo ancora raggiunto e da cui avrei forse finalmente potuto guardare all’interno di me, ben al di là del mio corpo ribelle.