Bitta:
Spazio:
Tempo:
Il tempo massimo di regata è di 72 ore tra la data 23 Ottobre e la data 17 Dicembre.
Mezzo:
Parole scritte. Minimo 4000 massimo 6000 battute spazi esclusi
Visibilità: Pubblico
Boa 1:
Di Marina Marcolin
Boa 2:
Boa 3:
Un debito
Equipaggio
AUTORE: Ali
TITOLO: Breve incontro
AUTORE: DaveTeller
TITOLO: Sempre insieme
AUTORE: Dolli
TITOLO: La nonna Giovanna
AUTORE: Fiorenzo
TITOLO: … papà
AUTORE: Fixus
TITOLO: Lettere d’essenza
AUTORE: Francesca Barale
TITOLO: Come stelle nell’oscurità
AUTORE: Nina
TITOLO: Argentovivo
AUTORE: Piero
TITOLO: Il profumo ArgentoVivo.
AUTORE: Richie cunningham
TITOLO: RISVEGLI
AUTORE: RoxanaGrosso
TITOLO: TASCA DESTRA
AUTORE: Roxy
TITOLO: CUORE IN PAUSA
“Ti ringrazio ancora di avermi cercato, di avermi voluto vedere”, sorrise Leo. Il nostro tempo era quasi scaduto e nulla di quello che avrei voluto dirgli era uscito dalle mie labbra. Sorrisi anch’io, assai meno disinvolta, alzandomi: “Ma figurati, mi ha fatto piacere… chissà quando tornerò a Parigi, e sapendo che eri qui…”. Lasciai in sospeso la frase, perfetto esempio di conversazione vuota tra sconosciuti. Proprio noi. “Permetti? Faccio io”, continuò galante, pagando le nostre consumazioni alla cassa. “Ti accompagno in stazione”, si offrì, e uscimmo tra la nebbiolina di fine ottobre. Mi trattenni dal dire una banalità sul tempo, per cui mi sarei poi maledetta. “Ho quaranta minuti – precisai invece – ma devo arrivare un po’ in anticipo perché… mi aspettano”. Odiai anche quella forma impersonale che accresceva le distanze, ma Leo non ci diede peso. Ero quasi stordita dal battito assordante del mio cuore, dal pulsarmi del sangue alle orecchie che mi impediva di seguire il filo del suo aneddoto: parole su parole, per evitare che il silenzio si insinuasse tra noi. Eppure adoravamo stare in silenzio, una volta. “Ma… mi ascolti?”. Forse me lo stava già ripetendo, quando all’improvviso si fermò, prendendomi per un braccio e sollevandomi il mento per costringermi a guardarlo. “Anna. Posso abbracciarti?” e mi strinse a sé. Era da lui fare una domanda e non aspettare la risposta, ma comportarsi come aveva deciso, come gli andava bene. Per qualche istante continuai a tenere le mani nelle mie tasche, rigide e contratte, poi cedetti all’abbraccio, riconoscendo il suo torace ampio, le sue spalle forti, il bagnoschiuma al sandalo… possibile che fosse ancora quello? Per poco non ebbi le vertigini.
“Cos’hai in mano?”. La sua voce mi riscosse; non mi ero neanche accorta di quello che inconsciamente stringevo nella mia destra. Si era allontanato un po’, tenendomi ancora un braccio lungo la vita. “Niente… cioè no, è una foto”. “Una bimba: chi è, Anna?”. Mi sentii assurdamente in colpa (io!): “Mia figlia, Leo: ha sette anni”. Non riuscii ad evitare un tremito nella voce, un indugio su quel sette, pronunciato quasi al rallentatore. Ma nulla di ciò che temevo, o forse volevo, accadde: il sette gli scivolò sopra liscio. “I numeri non sono per me”, diceva sempre, ed evidentemente la massima valeva ancora. Del resto era un filosofo, come sanciva la sua brillante carriera universitaria. Non si scostò da me, se non per guardare meglio: Agnese stava giocando con il suo hula hoop sulla spiaggia, sprizzando energia e vitalità da ogni gesto. Aveva i capelli sciolti, che le volavano leggeri nell’aria e uno sguardo insieme serio e spensierato, che Leo notò con tenerezza. “Sono contento per te”. E sembrava davvero che lo fosse.
Riprendemmo a camminare, ma qualcosa era cambiato. Quello che rimaneva dell’antica complicità ci stava riavvicinando, proprio un attimo prima che ci perdessimo di nuovo, chissà per quanto, forse per sempre. Fui io, a pochi metri dalla Gare de Lyon, a fermarmi e a cercare il suo sguardo. “Mi sei mancato, ma sono andata avanti”. “Ti ricordo che sei stata tu a lasciarmi”. Nel suo tono non c’era rimprovero, forse nemmeno amarezza; solo la semplice constatazione, perfino un velo di sarcasmo. Ci rimasi male. “Sei sempre stato così… sicuro, padrone di te, della tua vita, ma anche della mia, non ce la facevo più”. Mi interruppe con ferma dolcezza: “Non mi devi spiegazioni, Anna, tanto meno ora, dopo tanto tempo. Ho capito, ho accettato e ho rispettato la tua scelta mettendomi da parte”. “E ci sei riuscito molto bene: dopo un paio di telefonate hai lasciato perdere… la miglior prova di quanto ti importasse di me”. “Non essere ingiusta. Adesso stai semplificando. Non puoi riassumere tanti anni in poche frasi”. Già, quanti anni, Leo, mi venne da chiedergli, ma tenni la domanda per me.
Mi strinse di nuovo al petto, riportandomi a quell’altra sera, a quell’altra me stessa, a quel preciso momento in cui “Tanti auguri, cara Anna, tanti auguri a te”, mi aveva appena cantato. Già, peccato che i miei vent’anni li avessi compiuti tre giorni prima. E che lui non ci fosse, non potesse esserci. Per festeggiare il mio non compleanno mi aveva invitata in collina, a casa di sua nonna – deserta di tutta la famiglia, ovviamente: io non ero presentabile ai suoi, per una ragione per nulla oscura, ma anzi molto evidente al mondo intero: era già fidanzato, ed era chiaro che lei valeva più di me. Fu una sera di pianti (i miei), di risate, di confidenze, di amore struggente e appassionato, che malgrado le contraddizioni definirei nostro. Assaporammo quella notte d’estate calda e piena di stelle senza sprecarne neanche un momento, io soprattutto, perché lui per me era l’unico, ma anche perché sapevo che sarebbe stata l’ultima volta: di lì a qualche giorno sarei andata a Londra come ragazza alla pari, per sei mesi. Avevo deciso di non dirglielo per farmi rincorrere, desiderare, cercare. Per fargli avere nostalgia di me. Partii al mattino dalla casa della nonna lasciandogli una musicassetta con la nostra canzone, la mia canzone, I wont to break free, di cui avevo diligentemente copiato il testo e scritto la traduzione sul mio quaderno di inglese: voglio liberarmi, voglio liberarmi, voglio liberarmi… ma adesso mi chiedo se ci sia riuscita.
Quell’abbraccio lo feci durare il più a lungo possibile, per poterlo ricordare ancora e ancora, come il rumore del suo respiro. “Anna, grazie”. Adoravo, adoro quando mi chiama lui per nome. “Devi andare”. Un po’ meno quando mi riporta alla realtà. Ma era vero, dovevo salutarlo. Chissà quante volte il mio telefono aveva squillato silenzioso, quanti messaggi senza risposta. Non me ne importava affatto. Sarei rimasta lì per sempre. I wont to break free, sarebbe stato il caso di dire. Ma nulla di tutto ciò accadde: non si dice addio alla propria bimba, non si fanno colpi di testa quando si è faticosamente conquistato tutto quello che avevo. Una famiglia: Agnese ed io.
“Dimmi che sei felice –, mi sussurrò all’orecchio, – dimmi che non devo sentirmi in debito con te”. Per l’ultima parte della domanda è tutto il contrario, pensai, mentre a parole lo rassicuravo, staccandomi da quell’abbraccio, ormai pronta al distacco. La sua preoccupazione mi sembrò un po’ meschina, sbattendomi in faccia quell’egoismo che ben conoscevo, ma lo perdonai per la nota di malinconia nei suoi occhi. Il tempo era passato anche per lui, inesorabile per tutti, ma spietato nei confronti di chi più, da giovane, era stato bello. Forse adesso i quindici anni di differenza tra noi mi sarebbero pesati. Sostenni il suo sguardo senza leggervi quella profondità che tante volte vi avevo scorto, o forse immaginato. Compresi che quella era davvero l’ultima volta, e andava bene così. Lo salutai, finalmente rappacificata con la me stessa di allora e di adesso, anno 2023, una giovane donna con una bimba, due gatti, solidi affetti, affezionati ricordi. Nessun debito, grazie.
Ogni volta era così, usciva fuori sul terrazzino gettando un’occhiata alle creste delle Marittime e delle Cozie che disegnavano l’immobilità dell’orizzonte. Era una linea che seguiva con lo sguardo come se fosse la frase di un testo che le raccontava storie nella mente, pensieri che trovavano il loro punto sulla croce del Monte San Bernardo.
Ogni guizzo del sole, intento ad impreziosire il pendio che reggeva la solennità di quella cima, si spegneva sotto la doccia fredda di un rimorso. Lorenza estraeva quindi il telefono dalla tasca, apriva Whatsapp e scendeva nei dedali della cronologia delle chat, un posto in cui solo ciò che non può più essere aggiornato finiva a memoria del tempo.
Camilla. Cliccò sopra la foto.
Una fascia sui capelli, un paio di occhiali tondi scuri e un sorriso, raccontavano di una ragazza solare, energica e performante, in posa davanti a due laghi immortalati da una prospettiva rialzata.
Lorenza scosse la testa, incredula nel poterla rivedere solo immobile, simile alle Alpi che amava, attraverso un’immagine, mentre ogni tratto del suo viso si faceva rigido e una smorfia apatica tradiva un enorme senso di vuoto. Sconvolta dalla mancanza di quella figura riesumò l’immutabilità di quei messaggi il cui ultimo datava 20 maggio 2022. Il fiato le mancò tanto quanto le mancava la sorella, la cui anima ardeva ancora sul confine frastagliato che separa la terra dal cielo. “Questo tumore non ci separerà” recitava la bugia.
Un gesto di stizza mise in moto una carrellata vertiginosa di caselle di testo che raggiunse una foto: ” Manchi solo tu ” leggeva, per poi tornare a fissare la croce sulla vetta del San Bernardo, la stessa immortalata nel selfie, lo stesso metallo stretto nella mano sinistra di Camilla.
“Wow!” Le scrisse.
“Mi prometti che quando la tua caviglia sarà guarita verrai anche tu?”
“Si” Fu la risposta e non c’è nulla di peggio di un nodo al fazzoletto che non si può scogliere.
Passò un anno intero a ripetere quella routine. Con qualsiasi condizione meteo lei usciva sul balcone, fissava la corona di montagne, sforzandosi di immaginarla ancora lassù, amplificando lo sforzo nelle giornate di magra in cui tutto scivolava dietro una coltre di nuvole grigie.
— Pensi ci sia una risposta in ciò che mi stai portando? – una donna bionda con la coda di cavallo la stava osservando seduta su una poltrona opposta a quella in cui si trovava lei.
— Non riesco a farne a meno – parlava a ruota libera, immersa in un monologo ragionato – è diventata una terribile consuetudine, non riesco a staccarmi dal fissare quella montagna –
— Cos’è che ti lega a lei? – Lorenza rimase in silenzio.
L’acqua di un torrente scorreva appena fuori la finestra e qualche albero oscurava in parte un parcheggio poco utilizzato — Mia sorella? – si sbloccò.
— C’è molto che lavora in questo dubbio. Lei è la figura di riferimento, certamente…- la psicologa percepiva un sentiero da dover percorrere — …certamente tua sorella ti lega ad essa, ma ancor di più è quella promessa che mi porti solo oggi, come va la tua caviglia? –
— Mi fa ancora male –
— Ma non ti vedo zoppicare, forse è ora di metterla alla prova e quel male sparirà -.
L’espressione della donna abbracciò Lorenza in un sorriso tiepido, compiacente. Ciò che non venne detto, ma esplose nel cuore, fu la scintilla che innescò il movimento.
L’automobile scivolò oltre il ponte sul Varaita, dopo Brossasco, inforcando la deviazione che si inerpicava verso il Santuario di Valmala. Le curve non si potevano contare. Alla quinta le venne un senso di sconforto, evidenziato dal gracchiare della radio che perse contatto con la ricezione. La lasciò comunque accesa, quando riprese il canto nitido in un attimo di apertura della valle:
“Però tu fammi una promessa
Che un giorno quando sarai persa
Ripenserai ogni tanto a cosa siamo stati noi”
Lampi a cascate di cene passate a sorseggiare vino presero forma assieme ai giochi da tavola con gli amici e le risate, incalzate dalle notti passate in riva al mare per finire alla vacanza in Trentino, quando gli occhi lucidi di Camilla sprigionarono la gioia di quella serata in onore del suo diciottesimo compleanno. Si smorzarono i ricordi quando la voce del cantante tornò a sporcarsi di interferenze. La macchina, oltrepassato il Santuario, si fermò nel piazzale di Pian Pietro all’attacco per la cima.
Lorenza appoggiò il piede a terra, la caviglia le diede una scossa feroce. Non fece nulla di avventato se non rallentare il respiro accorgendosi che gli alberi possedevano il profumo dei capelli di Camilla. Mise gli scarponi ai piedi e lo zaino in spalla. La direttissima era un’ascesa continua. Ingoiò la saliva per la sua articolazione malconcia e iniziò a camminare.
Dapprima fu una lotta con se stessa. Il dolore a volte pareva vincere, ma l’illusione di poter vedere un volto che le mancava, raggiunta la vetta, le dava un moto d’azione inequiparabile ad ogni brivido che avrebbe potuto ricevere da una realtà tangibile. La caviglia si scaldò quel tanto che basta da riuscire a tenere un passo costante, al ritmo della canzone passata alla radio: Ridere.
Ed eccola sorgere, su ciò che pareva una collinetta, se si escludono i 1500 metri che la separano dal mare nel punto in cui si trovava Lorenza. Una croce metallica, su un ceppo di cemento, senza nessuno al suo fianco. Ancora un po’ di dislivello e sarebbe stata gioia pura. E lo fu.
Attorno un paesaggio cristallino si apriva a trecentosessanta gradi sulla Valle Varaita, sulla Valle Maira, sulle Alpi Marittime e Liguri e la piana di Cuneo; le colline delle Langhe e Torino lontana con il Rosa alle sue spalle. Era tutto più vicino, anche Camilla. Così Lorenza prese il telefono, fece una foto esattamente come le arrivò quel giorno da sua sorella e la inviò nella loro chat. “Eccomi, come promesso, una volta ancora, insieme” scrisse.
La nonna Giovanna
Mentre spolveravo la libreria ho visto spuntare, sull’ultimo ripiano, una vecchia scatola di latta. Incuriosita, dopo una manovra un tantino azzardata, son riuscita a recuperarla.
Dentro, tra fogli di carta velina ormai ingialliti dal tempo, la fotografia di una giovane donna. Un’immagine in bianco e nero che conservava inalterato il suo fascino un po’ retrò. Dietro, una data: 16 aprile 1920.
E di colpo, in quei grandi occhi scuri, nei lineamenti delicati del volto, nel sorriso sbarazzino appena accennato, ho riconosciuto la nonna Giovanna.
Era stata scattata il giorno del suo ventesimo compleanno, uno dei momenti più belli della sua vita, raccontava con voce venata da un pizzico di malinconia, mostrandomi orgogliosa lo scatto quando ero bambina.
“Guarda come ero bella magra, allora” affermava sospirando accennando al vitino da vespa” merito non solo mio, ma del bustino, di quei lacci e stecche che mi comprimevano fino a togliermi il respiro. Una vera tortura, un supplizio a cui tu, per fortuna, sei scampata.
Sai, la notte prima non ho chiuso occhio, tanto ero eccitata.
La mattina mi sono alzata presto per lavarmi il viso con la saponaria, quei fiori rosa delicati che regalano una pelle bianca e vellutata. Poi, steso un impacco di rosso d’uovo sui capelli, dopo mezz’ora li ho sciacquati con un decotto tiepido di ortiche. Vecchio segreto per averli sani e luminosi.
Mia madre intanto, ha tirato fuori da un baule gli abiti buoni delle feste: la gonna di velluto nero e la camicia di pizzo bianco, aiutandomi a chiudere la lunga fila di bottoni sulla schiena.
Poi, come d’incanto, tra le sue mani, è comparso il mio regalo di compleanno: un paio di stivaletti in pelle con il tacco a rocchetto. Incredula, li guardavo e riguardavo felice senza riuscire a distogliervi lo sguardo. Non avevo mai posseduto nulla di così elegante!
Mentre finivo di vestirmi, all’ora stabilita, è arrivato il fotografo.
Il signor Bruno, un tipo piuttosto burbero, dopo un caffè veloce con mio padre, si è messo subito al lavoro. Con un telo bianco ha ricreato in salotto uno sfondo uniforme, facendomi accomodare su una sedia dallo schienale di velluto, posta davanti a qualche metro di distanza.
Poi, ritto dietro il cavalletto, ha iniziato ad armeggiare con la sua macchina fotografica a soffietto.
Ricordo che, impacciata, non sapevo dove mettere le mani, dove guardare, come atteggiare il volto. Lui mi suggeriva di tener le spalle dritte, il petto in fuori. Di sorridere sì, ma non troppo.
Insomma un vero incubo per me che, irrigidita, sedevo in una posa statica, ben poco naturale.
Poi, ad un tratto, dalla cucina è sbucato Minù, il mio gatto, che ha iniziato a girargli intorno insistente, strusciandosi contro e facendogli le fusa mentre l’uomo, sempre più nervoso, invano cercava di levarselo di dosso.
A quel punto, sulle labbra mi è affiorato un sorriso. Un sorriso breve, spontaneo, un luccichio divertito nello sguardo, immortalati, come vedi, nella foto.
Andato via il fotografo, dismessi gli abiti eleganti e infilato un vestito comodo e gli zoccoli di legno, nel pomeriggio ho aiutato mia madre a cucinare per la festicciola della sera, la classica merenda sinoira piemontese.
Sul tavolo, imbandito per l’occasione sotto il pergolato, nel giro di un paio d’ore son spuntati piatti colmi di acciughe al verde e di insalata russa, taglieri con salami, tome fresche e caciotte stagionate. E, per finire, fragranti paste di meliga appena sfornate. Il tutto accompagnato da qualche bottiglia di dolcetto e di barbera.
Verso le cinque di sera hanno iniziato ad arrivare gli invitati, ed era tutto un gran vociare: saluti calorosi, lazzi e risate allegre.
Sfamati i commensali, mio fratello Tommaso ha tirato fuori la sua fisarmonica e si è fatta un po’ di musica.
Le note dei ballet, della curenta e della gigo risuonavano festose dentro l’aia e tutti si muovevano all’unisono assecondandone il ritmo sempre più vivace. Tra i giovani poi, era un continuo scambio di sguardi e di sorrisi che, timidamente, mettevano a nudo i sentimenti più segreti.
Ad un tratto si è fermato in cortile un calesse. Ne è sceso un giovane elegante con in mano un bouquet di fiori e un grande pacco dal fiocco colorato.
Mi sono avvicinata e son rimasta lì a fissarlo, muta, completamente persa nell’azzurro cielo dei suoi occhi.
“Ho una consegna per Giovanna Ghigo” ha dovuto ripetermi due volte con espressione divertita, visto che non spiccicavo una parola “per caso è lei la festeggiata?”
“Sì, io” credo alla fine di aver risposto,” se le fa piacere un bicchiere di buon vino…” ho aggiunto precipitosamente ad occhi bassi con le orecchie in fiamme. Intanto, imbarazzata, scrutavo gli stivaletti impolverati, l’orlo della gonna che, nella foga del ballo si era un po’ scucito, i riccioli ribelli sfuggiti dalla treccia. Un’ immagine terribilmente lontana dalla foto scattata la mattina, pensavo sconsolata.
Ma il giovane non doveva averci fatto troppo caso, “Mi fermo volentieri, se è per rendere omaggio ad una ragazza così bella. Soltanto un attimo però, perché devo finire le consegne.”
Un attimo… mai altra parola era risuonata così sublime alle mie orecchie. Una parola dolce e piena di speranze, di sogni inconfessati. Un attimo che in verità è durato tutto una vita, visto che quel bel giovanotto era tuo nonno.”
Poi, nascondendo un sottile turbamento dietro un sorriso, mi abbracciava stretta. E, messi su gli occhiali da lettura, tirava fuori dal cassetto il libro delle favole di Esopo di cui andavo matta.
…..papà!
…. 25 novembre 1920
… eccolo!
E’ proprio lui, mio papà
Lo vedo, lo vedo.
Ha appena cinque anni e appoggiato ad un masso tiene a bada una capra bianca,
….. e lo soprannominarono Giân ‘d la crava bianca.
Lui è Patriotto Italo, nato nel 1915 e subito affidato ad un brefotrofio che provvide a dargli un cognome ed un nome.
Ma quel nome, quel nome …. Italo, non era mai risuonato ai piedi della Bisalta e allora lo chiamarono sempre Giân (Giovanni).
Seppe solo più avanti di essere stato il frutto di un amore o anche solo di un rapporto proibito.
Era l’anno in cui iniziò la prima guerra mondiale, ci sarebbero poi stati milioni di morti, già,
ma del suo urlo alla vita, bisognava vergognarsi.
Provo ad immaginarmelo in quegli stanzoni da film in bianco e nero ignaro di sè, eppure urlante.
Urlante assieme ad altri punti interrogativi nelle culle vicine alla sua
… altri fasciati fagotti con un passato da cancellare.
Papà, senza sapere dove e perché, hai vagato in quel prato avvolto nella nebbia finché un giorno una mano ha stretto la tua e tu l’hai seguita.
….continuavi a non capire.
Stavi uscendo da quell’incubatrice, già,
forse stavi nascendo un’altra volta.
La mano a cui si era unita la tua era quella di Margherita, Risso Margherita in Martini.
Per necessità aveva deciso di cogliere l’opportunità di essere la tua balia.
…. per l’amore c’era tempo
Chissà cosa pensi mentre stai poppando al caldo seno di Margherita in quella cucina scarsamente illuminata e riscaldata.
Senza saperlo sei diventato un abitante in più, in quell’allora popolosa borgata Crocette di San Giacomo.
Batista, Margherita e Fiorenzina (tua sorella) sono fuori a lavorare nel bosco e tu, fasciato come un salamino, sei solo in casa o meglio, nella stalla.
Si, effettivamente hai tutto quello che hai imparato a desiderare.
No, non sei solo, quell’umido tepore ti abbraccia, lo scalpiccio nervoso delle capre e il silenzio interrotto da belati improvvisi sono una favola raccontata ad alta voce.
Tu l’ascolti attentamente anche se non è la prima volta che la senti e come tutte le storie alla fine diventa una nenia e
… ti addormenti.
Piano, piano, ti stai inserendo nella comunità.
Cominci ad esistere.
E’ Natale e per Batista e Garitïn (Margherita), al ritorno dalla fredda e obbligatoria messa di mezzanotte, tu nella stalla, non sei Gesù Bambino, no, ma ti regalano una timida e rasposa carezza.
Omai fai parte del presepe.
Sei un “ciciu du presèpiu”!
E’ il 1917….. e cammini, cammini da solo..
…. ma non sei solo!
Hai imparato appoggiandoti alle sedie impagliate o aggrappandoti al vello caprino di passaggio.
Oggi e’ il 31 luglio, tu hai due anni e quella porta socchiusa da cui filtra la luce di un infinito sconosciuto, ti incuriosisce e ti attrae.
Non hai mai aperto una porta, ma la palpeggi, la graffi, la tiri, la spingi e alla fine, cigolando, si apre.
Tu cadi, ma ti rialzi prontamente.
Sei abbagliato dalla luce e dallo spazio.
Non finestre, ma il sole, non muri, ma alberi, non il piano, ma la riva, non il borbottio delle pentole sulla stufa, ma mille nuovi suoni, sconosciuti ed improvvisi.
Tra questi, però, ce n’è uno che riconosci.
E’ il tuo nome ripetuto più volte, sempre più forte e capisci da dove e da chi arriva.
Ignaro, rimani immobile in curiosa attesa.
E’ mamma Garitïn che arriva trafelata e mollandoti uno scappellotto ti riporta in cucina.
Hai l’argento vivo, non riescono a tenerti fermo e allora cominciano ad impegnarti in piccole faccende domestiche, tipo sgranare i fagioli, separare le castagne più piccole dalle altre, asciugare le posate, portare l’acqua avanzata alle capre.
Per te è un gioco, stai già lavorando, ma non lo sai.
( Così sarà sempre nella tua vita, anche di adulto. Non hai necessariamente cercato uno spazio definito di tempo libero per divertirti, perché nel lavoro coniugavi sogni e bisogni, manualità e fantasia, perdere e rincorrere il tempo, curiosità e banalità. La libertà non è poter fare l’impossibile ma sentirsi libero, facendo il possibile)
Correndo e ruzzolando, piangendo e sporcandoti, attendendo e ascoltando storie, saltando e aggirando ostacoli, stai crescendo.
E’ il 1919 e la “spagnola” miete vittime tra i parenti di Garitïn, ma tu ne rimani fuori.
“Questi bastardi, non muoiono neanche a tirarli contro un muro”.
Così ebbe modo di esprimersi la Margherita-Garitïn.
Una semplice, seppur cruda, constatazione che nulla toglieva al suo ruvido “volerti bene” che poi era un “amare”; non contemplato nell’esternare un sentimento..
Ma torno a te appoggiato a quel masso del torrente Colla mentre vigili da pastore la tua capra bianca.
Hai ancora cinquantacinque anni da vivere e a te piacerà vivere.
“I want to break free”, dei Queen, non può essere la tua colonna sonora, perché non avevi bisogno di liberarti, non ti sentivi oppresso dalla quotidianità.
Trovavi sempre lo spazio per “accorgerti” di vivere, ora piangendo, ora ridendo, ora discutendo, ora ironizzando, ora rischiando.
Non hai debiti di riconoscenza col passato perché la tua storia comincia da te.
Il futuro, invece, ha dei debiti nei tuoi confronti perché non ti ha concesso di essere nonno e bisnonno della famiglia.
La tua famiglia!
Grazie!
Grazie, papà!
Ci hai infuso il ritmo della libertà (…. a volte, addirittura sfacciato e fuori luogo) e soprattutto, da trovatello, il non timore della “libertà di non contare niente”.
Il riscaldamento ad aria ronzava ipnotico nella stanza. Una leggera coltre di umidità sulla finestra sfocava il mondo esterno rendendo la camera stagna dalla vita fuori da lì. Un laptop acceso attendeva ligio un comando, il foglio bianco giaceva inerte sul tavolo. L’ennesima notte senza risultati. La matita tra le dita si agitava come una farfalla in trappola ticchettando di tanto in tanto sul tavolo. Uno sbuffo di disapprovazione ruppe quella pigra inerzia inducendolo ad alzarsi da quella sedia così scomodamente famigliare. Due brevi passi lo portarono alla finestra. Con un gesto pigro della mano tolse la condensa dal vetro e guardò fuori. Era notte, ma la vita ribolliva gioiosa. Era la notte di Ognissanti. Nugoli di creature correvano e sbraitavano il loro gioioso momento di gloria. Fatine, vampiri, fantasmi ogni essere fatato e non girava libero di reclamare i dolci minacciando rappresaglie a chi non avesse assolto a quel compito. Un piccolo elfo, con la pelle argentea, faceva volteggiare un Hula Hoop lucente con innata grazia e fantasia dal quale scaturivano giochi di luce e abbacinanti luccichii come se tutto l’essere in sè fosse fatto di Argentovivo. Con un pizzico di invidia si staccò dalla finestra umida e colante e si mise a passeggiare per la stanza. Un calendario appeso alla parete aveva un segno rosso sulla data del giorno dopo, primo novembre duemilaventitré. Un occhio scivolò su quel segno per passare rapido altrove. Non osava guardarlo per più di qualche secondo anche se alla fine si ritrovava sempre con l’attenzione focalizzata su quella dannata pagina. Quel segno pesava come un macigno, come pesavano i secondi che passavano inesorabili portandolo sempre più vicino a quel nefasto traguardo. Si passò la mano umida tra i capelli cercando di darsi un tono, ma fallì. Tutto di lui urlava disperazione: la maglietta unta con il colletto segnato, i pantaloni slacciati che, ad ogni passo, strascicavano a terra, le calze spaiate, le occhiaie… tutto di lui urlava disperazione. Cercando un nuovo spunto d’ispirazione accese la radio e fece girare la rotella delle frequenze. Una moltitudine di generi si intervallarono: pop, rock, dance, disco e benché molte canzoni gli fossero famigliari non si fermò finché non sentì un brano molto famoso dei Queen: I Want to Break Free. Sulle note di quella magnifica canzone si fece trasportare a quel lontano giugno dell’anno prima quando per pura coincidenza conobbe Lucas Ghisini. Era una serata come tante altre, mentre stava andando a pagare il conto della pizzeria nel quale aveva mangiato. Passando aveva inciampato in una sedia e per poco non era rovinato sul tavolo di quello sfortunato signore. Tra una scusa e l’altra si erano ritrovati a bere il digestivo assieme e a fine serata, il simpatico signore, aveva tirato fuori il bigliettino da visita porgendoglielo con la promessa di ritrovarsi per una nuova bevuta. Quando aveva letto il ruolo ricoperto da Lucas sul suo bigliettino era rimasto sbigottito. Correttore di bozze e talent scout. Grazie a qualche bicchierino di troppo si era fatto avanti e gli aveva mostrato il suo lavoro. Qualche giorno dopo Ghisini lo aveva contattato dicendogli che il suo lavoro era molto buono e che se per una certa data gli avesse dato del materiale su cui lavorare avrebbero potuto stipulare un contratto. L’occhio scorse nuovamente sul segno rosso. ‘L’occasione di una vita sfumata, buttata via’ pensò mesto. Si passò le mani sul viso. Il ritornello della canzone lo riportò alla realtà. Conosceva bene quella canzone e mai come in quel momento ne sarebbe stato più affine. Era in debito con quel uomo che senza conoscerlo gli aveva dato una possibilità, la possibilità di far crescere il suo amore per la scrittura. Era giunto il momento di abbracciare quell’amore così difficile e travagliato per spiccare il volo e affermasi come scrittore. E nonostante tutto, il foglio sul tavolo rimaneva bianco e vuoto. Cos’aveva convinto Ghisini a dargli una possibilità? Che cosa avevano i suoi scritti di speciale? Ripensò a cosa aveva scritto e a come aveva scritto. Ripensò alle interviste dei vari big della scrittura ed in fine ebbe l’epifania. Si bloccò. Amore e passione e soprattutto non cercava l’approvazione di nessuno solo il suo benessere. Erano brani scritti con consapevolezza e sentimento. Proprio come menzionato dai più grandi autori del campo letterario, dentro ogni suo brano vi era un pezzo della sua anima. Si sedette e prese la matita. Le prime furono parole a caso, senza senso ne connessione, poi un filo conduttore legò i pensieri alle parole e le parole ai sentimenti. Quello che provava era un amore difficile e travagliato a volte lieve e gentile a volte duro e frustrante, ma era il suo amore e avrebbe lottato per la sua emancipazione e libertà. Le parole volavano lievi sulla carta mentre la sua essenza penetrava in ogni sillaba, in ogni singola lettera verso la creazione di qualcosa di unico che prima di ogni altra cosa sarebbe piaciuta a lui. Mentre scivolava nell’oblio della creazione una lacrima gli cadde sulle parole di grafite e per la prima volta la vide, lucente e abbacinate come il piccolo elfo per strada, l’essenza nelle sue lettere che pulsava viva.
Era ancora buio quando Gry aprì gli occhi e si tirò a sedere sul letto, le ombre di un incubo confuso che ancora cercavano di rimanere artigliate alla sua mente. La ragazza sbatté qualche volta le palpebre e si concentrò sulla sua stanza, cercando di scacciare quelle immagini cupe. La luce pallida della luna filtrava attraverso la finestra, disegnando lunghe ombre sul pavimento, il piccolo ritaglio di cielo di un blu intenso.
La ragazza guardò la sveglia sul comodino: segnava le 5:36. A quell’ora tutto il paese doveva essere ancora addormentato. Gry decise di alzarsi: sapeva che ormai non sarebbe più riuscita a riaddormentarsi, soprattutto non dopo quel maledetto incubo. Indossò i primi vestiti che le capitarono sotto mano e andò verso la porta, le assi di legno che scricchiolavano sotto i suoi piedi nudi.
Sarebbe andata a pattinare, nonostante il freddo della notte norvegese. Il silenzio della notte la chiamava, sentiva il suo corpo fremere dal desiderio di uscire dal tepore della sua casa per farsi abbracciare dall’aria gelida, aveva bisogno di sentire il freddo pungerle il viso per tornare a respirare, per sentirsi libera, viva.
Dopo aver preso i suoi eleganti pattini color panna, Gry aprì la porta e uscì. L’alito gelido della notte la travolse, svegliandola completamente. Il silenzio immobile e libero della natura sconfinata aleggiava nell’aria: era proprio quello di cui aveva bisogno dopo l’incubo.
Gry alzò lo sguardo al cielo terso e la bellezza del cielo stellato le tolse il fiato: non si sarebbe mai abituata a quello spettacolo. Le stelle erano come frammenti di diamante su un mantello di scuro velluto blu. La luce dolce e misteriosa della luna piena si rifletteva nei suoi occhi che brillavano davanti a quella meraviglia.
La ragazza si avvicinò al lago, trasformato in una liscissima lastra di ghiaccio in cui la volta celeste si specchiava. Gry iniziò a pattinare con movimenti aggraziati, la lama che scivolava sicura sul ghiaccio, i lunghi capelli corvini che si sollevavano sospinti dal soffio del vento. Tutto intorno a lei era stelle e pace, ogni elemento contribuiva a comporre l’armonia della notte.
Poi le immagini dell’incubo riemersero nella sua mente. Una città. Palazzi, rumori. La lastra di ghiaccio che ogni anno diventava sempre più sottile. Strade come ferite che squarciavano le pinete in cui Gry era cresciuta. L’inverno che di anno in anno diventava sempre più mite. Il cielo stellato velato da una patina di fumo grigio.
No, non poteva sopportarlo. Cercò di fermare quella pellicola che continuava ad essere proiettata a ripetizione nella sua mente, soffocandola.
Proprio in quel momento un movimento sotto la superficie del lago ghiacciato attirò la sua attenzione. Un bagliore fluido, rapido, la distolse dai suoi pensieri cupi.
Gry socchiuse gli occhi, cercando di cogliere altri movimenti sospetti. Eppure niente, sembrava tutto immobile.
Era arrivata in un punto in cui il lago si stringeva, incanalandosi in una stretta valle ricoperta di pini. Non si era mai addentrata in quel luogo in cui la luce della luna faticava a scacciare l’oscurità.
Poi la vide di nuovo. Una luce contorcersi sotto lo strato di ghiaccio. Gry continuò a pattinare, sempre più curiosa, e quei lampi argentati divennero sempre più frequenti. Sembrava che il lago stesse prendendo vita, quel fluido scorreva con movimenti vivaci, giocosi, quasi dandole il benvenuto: sembrava che lì sotto ci fosse dell’argento liquido che pulsava di vita.
Il volto di Gry era un alternarsi di stupore, curiosità e confusione: non riusciva a capire cosa fosse, sapeva solo che aveva un che di magico. Argento vivo, così Gry lo avrebbe descritto.
All’improvviso si trovò circondata da una nebbia sottile, biancastra. Gry non aveva paura, il fluido argentato le faceva da guida: era come se una parte di lei avesse aspettato per tutta la vita di arrivare lì. Come se quel posto la stesse aspettando.
Poi la nebbia si diradò e Gry riuscì a scorgere la fine del lago: una riva ricoperta da un soffice strato di muschio verde, le cime dei pini che svettavano verso il cielo d’inchiostro. La luna illuminava una figura seduta su una roccia in riva al lago: era un giovane dalla figura slanciata e agile, la pelle eterea che sembrava riflettere il chiarore della luna.
Mentre Gry si avvicinava, il ragazzo rimase fermo a guardarla con uno sguardo pacato, saggio, rassicurante. Solo quando gli fu più vicina, la ragazza riuscì a definire il colore di quegli occhi luminosi e magnetici, dalla forma lievemente a mandorla. L’iride era di un grigio-verde incantevole, con sfumature castane e azzurre. Una policromia che racchiudeva tutti i colori della natura, dai toni caldi della terra a quelli freddi dell’acqua.
«Chi sei?» gli chiese Gry.
«Mi chiamo Alf, ti stavo aspettando». Aveva una voce calda, avvolgente.
Gry assaporò quel nome: Alf, “amico degli elfi”. Solo in quel momento la ragazza notò le orecchie leggermente a punta, in armonia con i lineamenti gentili del suo viso.
«Perchè stavi aspettando…me?» gli domandò ancora la ragazza.
«Coricati e chiudi gli occhi, Gry».
La ragazza obbedì. Chissà perché non la sorprendeva il fatto che quel ragazzo, Alf, sapesse il suo nome.
«Che cosa senti?» le chiese con la sua voce melodiosa.
All’inizio Gry si domandò che cosa intendesse Alf, ma poi capì. Il tocco leggero dell’aria gelida sul viso, la terra morbida sotto di lei che accoglieva il peso del suo corpo, il sussurro dolce del vento tra i rami. Ma non finiva lì, c’era molto di più.
Percepiva la vita che scorreva in quel luogo, riusciva davvero a sentire l’energia che pulsava intorno a lei. Ma nel buio dei suoi occhi chiusi, percepì anche un altro suono più difficile da cogliere, anche se assordante: era la fragilità di quella vita.
La natura, la vita: erano forti, eppure terribilmente fragili. E ora che il delicato equilibrio di quel luogo era minacciato, tutto intorno a lei stava gridando alla ricerca disperata di aiuto.
Gry spalancò gli occhi di scatto e il suo sguardo di supplica annegò negli occhi chiari di Alf. Cercò in quel grigio-verde delle risposte, del conforto.
«Un tempo tutti gli umani riuscivano a sentire la voce della natura, il suo canto. Lo ascoltavano, si prendevano cura della loro Terra. Ora non fanno altro che soffocarla, non riescono più a connettersi con lei» la guardò intensamente con sguardo grave. «Gry, la Terra è malata, sta soffrendo. Ha disperatamente bisogno di qualcuno che la guarisca».
Le immagini dell’incubo tornarono a galla. La città, i palazzi, i rumori. Le strade. Il fumo grigio che impediva di respirare. Ognuna di queste era una pugnalata nel cuore pulsante della Terra. E il motivo per cui quelle immagini rimanevano annidate nella sua mente era la consapevolezza che quell’incubo sarebbe potuto diventare realtà. E le avrebbe rubato tutto ciò che amava.
Solo in quel momento Gry capì veramente quanto fosse in debito con la natura: la natura donava bellezza e pace, le aveva regalato il cielo stellato di quella notte, la libertà del vento, la quiete della foresta.
Quella notte Gry fece una promessa: avrebbe difeso quel luogo ad ogni costo.
Riccardo è un bambino bellissimo, con due occhi rotondi e curiosi, sempre stupiti di tutto ciò che c’è intorno a lui. Non smette mai di parlare o di muoversi: è come se avesse l’argento vivo addosso, o meglio che fosse lui fatto di argento vivo. “Cosa vuol dire Argentovivo, zia?”, mi chiede. E’ così che lo chiamo, perché non sta mai fermo: corre, salta, prende un gioco, si alza, scende, torna indietro e riparte, senza sosta. “E’ un altro modo di chiamare il mercurio – gli spiego sorridendo – un elemento chimico che, se si disperde, si trasforma in mille palline argentee che saltano dappertutto”. La sua attenzione diventa maggiore, gli occhi si sgranano e si perdono verso un punto indefinito. “Ma quali palline, zia? Me lo spieghi meglio?”
Quando ero piccola, nel piccolo appartamento in cui vivevo con la mia famiglia, ricordo che su una parete della cucina era appeso un grande termometro appartenente ad un altro tempo (credo almeno degli anni Venti del secolo scorso), e ad un’altra abitazione: probabilmente quella di mia nonna, una grande casa dalle alte finestre luminose, con un pavimento in cementine colorate e ampie stanze dai soffitti profilati di motivi in stucco bianco; era un appartamento che parlava di una borghesia agiata, in un bel palazzo di inizio Novecento sorto all’origine del viale alberato, la via certamente più rappresentativa e più ambita della città. Quel termometro era fatto in vetro soffiato, aveva forma cilindrica ed in basso era ben visibile la riserva di mercurio in un liquido argentato. Non so perché fosse finito in casa nostra, cambiando la sua collocazione in una molto meno idonea parete, ma mi capitava spesso di guardarlo curiosa per ciò che conteneva, ma anche per la provenienza da cui arrivava, lontana nel tempo e nello spazio. In quel periodo – avrò avuto circa 10 anni – praticavo la ginnastica ritmica, e spesso mi esercitavo in casa con gli attrezzi che dovevo usare: una volta, facendo un esercizio con il cerchio, diedi un colpo al termometro e quello, appeso con una cordicella poco sicura, si sollevò e cadde in terra, rompendosi e facendo uscire il suo contenuto di mercurio sul pavimento.
“Ecco, Ricky, ecco come ho imparato che cos’è l’argento vivo: un sacco di palline che saltano da tutte le parti come se fossero impazzite e che non si fermano più. E che non si possono toccare con le mani, perché il mercurio è pericoloso, può fare male se inalato o se viene in contatto con la pelle. Ma tu non sei pericoloso: sei bello e pieno di vita, come quelle palline lucide e vivaci che si muovono sempre. Ecco perché ti chiamo Argentovivo!”. “Ma zia, come avete fatto quella volta che facevi l’hula hoop a raccogliere tutte quelle palline che saltavano per la casa?”. Non lo ricordo con esattezza; ricordo l’agitazione della situazione, la mamma che mi sgridava cercando un modo per arginare il mercurio che si diffondeva facilmente sul pavimento, ma nulla di più. Ma Riccardo vuole ancora una parte della storia, quindi provo a cucire qualche particolare. “C’era la mia mamma che urlava di non toccare nulla e che con la scopa tentava di radunare le palline verso una paletta col manico lungo in modo che nessuno mettesse le mani troppo vicine alle piccole biglie argentate. Io e mio fratello ridevamo eccitati da quello spettacolo nuovo, ma la mamma era piuttosto agitata e non rideva per niente perché non era facile quell’operazione senza usare le mani in modo agevole. Quel metallo liquido aveva trovato la sua strada per espandersi, come in una canzone dei Queen sembrava dicesse: “Voglio liberarmi, voglio liberarmi!”… e si era liberato!”. Riccardo ride pensando all’argento vivo che parla o che canta e intanto si diffonde per la casa; e vedo che pensa già ad altro, forse un modo per applicare quella storia curiosa ad un disegno o ad un gioco, come di solito facciamo insieme. Gli dico allora: “Vuoi disegnare un termometro antico col mercurio dentro?” e lui si apre in un grande sorriso – era dunque ciò che aveva in mente. Mi dice: “Certo!” e mi invita a cercare un’immagine sul cellulare per farlo più somigliante possibile al vero. Ci mettiamo subito al lavoro, con fogli e matite colorate, e viene fuori un disegno davvero buffo perché Ricky vuole a tutti i costi rappresentare anche le famose palline argentee che saltano intorno al termometro ancora intero appeso alla parete, mentre una bambina salta in un cerchio.
Penso che è bello essere lì con lui, mio nipote, un bimbo che mi fa ricordare me stessa bambina, e la mia casa di allora, e la casa di mia nonna, attraverso un oggetto che quasi avevo dimenticato, per evocare il nomignolo che gli dò quando si muove con tanta vitalità; collegare il presente e il passato attraverso i ricordi e gli oggetti e le persone è come saldare un debito di riconoscenza per ciò che abbiamo e che abbiamo avuto attraverso gli anni.
Lo abbraccio e gli dò un bacio sulla testolina, e lui mi sfugge ridendo appena lo tocco, con la sua solita mobilità e con la sua allegria; giusto il tempo di colorare le palline di grigio glitterato e poi scappa via di corsa, verso un nuovo gioco in cui convogliare la sua energia: perché lui è Argentovivo.
Il profumo ArgentoVivo si trovava nell’antina di sinistra del mobiletto del bagno.
Aveva uno specchio grande e un’altra antica a destra, per qualche medicinale e l’unico spazzolino.
Non che mia nonna vivesse da sola, ma mio nonno, come tanti della sua generazione, perse i denti ancora giovane, ma non volle mai mettere la dentiera.
Mi diceva che avrebbe abbaiato fastidiosamente di notte sul comodino.
Quindi mio nonno si sciacquava solo la bocca, con del collutorio, e non mangiava nulla che fosse difficile da masticare con le sue gengive indurite.
Il profumo ArgentoVivo lo aveva regalato Dario il tabaccaio, a Natale, dato che i miei nonni erano degli ottimi clienti.
Era un profumo da uomo che però metteva anche mia nonna. Soprattutto mia nonna.
Se ne metteva dosi abbondanti per ogni lato del collo mentre si guardava allo specchio, come se si stesse truccando con qualcosa di invisibile, ma che le cambiava completamente l’aspetto.
Lo metteva prima di uscire. Quelle rare volte. Odiava uscire perché odiava il paese.
Fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, tanto che la mattina faticava a parlare.
Quando preparava una torta era solita darcene un pezzo, abitavamo dall’altra parte del cortile.
Se era appena fatta, era considerata commestibile. Se invece la torta aveva soggiornato anche per poco sul tavolo, sembrava di addentare un boccone di quell’atmosfera densa e fumosa, e nessuno di noi riusciva a mangiarla.
Dovevamo andare a trovarla dopo pranzo, quasi tutti i giorni, ci dava caffè con la panna e ci lasciava guardare i cartoni. Lei non usciva mai, se non per andare a prendere e sigarette.
Alle volte mandava noi e potevamo prenderci delle caramelle.
Mia sorella disse una volta al tabaccaio, sbarbato, gentile, con i capelli sempre ben ingellati, che avrebbe voluto sposarlo. Lui le diede un’altra caramella.
Io mentre aspettavo il mio turno per comprare le sigarette guardavo lo scaffale di fronte al bancone, dove c’erano i profumi. Non trovavo mai l’ArgentoVivo. Secondo me a Dario non piaceva e l’aveva regalato ai miei nonni.
Alcuni anni dopo, dato che il padre non lo aiutava più, Dario assunse una commessa giovane, truccatissima e profumatissima. Era stata la novità della piazza, ma non le chiesi mai di sposarmi.
Quando mio bisnonno veniva a trovarci dalla Francia si mangiava spesso tutti assieme nella cucina dei miei nonni, i grandi parlavano delle loro cose in francese e noi stavamo ad ascoltare, senza dire una parola, con la paura di non parlare bene il francese. Poi ci mandavano in cortile a giocare.
Mio bisnonno non guidava, quindi ogni volta si faceva scarrozzare da un amico.
Guardavo in cortile mia sorella che provava a far volteggiare l’hola-hoop regalato da Monsieur Canon, un signore alto, pelato, dalla carnagione scura, fumatore con i baffi ingialliti dal fumo. Era il cocchiere di turno, con una Citroen Pallas decappottabile.
Monsieur Canon applaudiva dal balcone dicendo “Bravo!”, e io pensavo che finalmente avesse imparato a parlare italiano, ma non si spinse mai oltre a questo e a solito Ciao.
Tiravo calci al pallone aspettando che mia sorella finisse lo show, un gatto della colonia fuori controllo del vicino scappò e l’altra vicina uscì rabbiosa intimidandoci di fare silenzio perché il marito doveva riposare.
Sicuramente non riusciva a risposare il pomeriggio che mia madre dedicava alle pulizie di casa.
Mio padre aveva comprato un impianto nuovo e mia madre, normalmente allergica al volume alto, quando era in compagnia dell’aspirapolvere, metteva coraggiosa la musica al massimo, tanto da sentirla riecheggiare dalla strada, passando nel portone buio che sapeva di piscio di gatto.
“I Want to Break Free!” cantava Freddie Mercury, mentre le operazioni di pulizia erano al loro culmine.
Mi immaginavo il marito di Rita, Giacu, vestito da Freddie afferrare la maniglia per tirarsi su dal letto come un’asta del microfono e alzarsi miracolosamente urlando dal suo letto palco un inno di insperata libertà.
Non si alzò mai. Rita lo metteva in un angolo del cortile a prendere il sole. Anche lui guardava mia sorella con l’hula-hoop, ma non diceva “Bravo”, non riusciva. Mi sembrava che piangesse sempre.
Mia nonna odiava il posto dove stava, penso che fosse triste della vita che faceva, ma non l’ho mai vista piangere per questo.
L’ho vista parecchio preoccupata però una volta per un numero che non si decideva ad uscire.
Un numero del lotto. Quando doveva giocare al lotto andava lei dal tabaccaio e giocava diversi numeri su diverse ruote. Si comprava naturalmente anche le sigarette.
Il numero che non usciva era ghiotto, perché se si fosse puntato su quel numero così ritardatario, il guadagno sarebbe stato interessante.
Ma ogni volta che si gioca bisogna puntare di più, per recuperare ciò che si è già puntato e tentare di guadagnare di più.
Una volta mia nonna convinse mia madre a giocare un numero, di quelli speciali, che prima o poi sarebbe uscito.
Anche io volli provare con una piccola cifra, i miei risparmi.
Mi ritrovai a chiedere soldi a mia madre per mandare avanti la storia e ben presto il debito, per quanto fosse esiguo, lo ritenni stupido e insostenibile.
Smisi perché non volevo diventare come quella signora che abitava vicino all’edicola il Papiro, su in cima al paese, che si era giocata pure la casa e aveva dovuto trasferirsi in un appartamento in affitto.
Mia madre rientrò della spesa e anche lei non giocò mai più. Non mi chiese mai i soldi del debito, anzi forse mi diede qualcosa delle vincita.
Un giorno, ormai maggiorenne, ero seduto sul marmo fuori dall’edicola di fianco al portone del mio cortile.
Ero con un mio amico delle Superiori, sgranocchiavamo caldarroste, era domenica pomeriggio, e c’era la festa autunnale del paese, la Castagnata.
Una signora sulla sessantina con una maglia azzurra fatta a mano, con una bella scollatura sul seno prosperoso, ci passò davanti tutta ben truccata e mi disse con voce rauca e cavernosa “Ciao Pierino”.
Ricambiai il saluto e lei passò oltre.
“Chi era quel troione profumato?” chiese il mio amico Federico.
“Mia nonna, il profumo è ArgentoVivo” risposi.
Ciao, Giorgio, ti chiamo domani, nel primo pomeriggio, d’accordo?
Bene, buona serata.
Se ne stavano andando tutti, facce note e sconosciute, saluti, abbracci, inviti a rivedersi presto, inviti che saranno puntualmente disattesi. Molti gli elogi per la mostra, per la bella gente che aveva invitato, complimenti di rito, falsi come la più parte delle volte, vuoti, una maschera da gettare appena usciti da li. Giorgio lo sapeva, era consapevole, lavorando in quel mondo, delle falsità, e messe in scena da operetta. Sapeva che, alla maggior parte degli intervenuti non importava nulla della esposizione, degli artisti che avevano accettato il suo invito ad esporre. Il gioco era il solito, tu inviti me ed io invito te, in una sorta di interminabile gioco di specchi, dove ciò che conta era farsi notare, non era importante ciò che facevi e perché lo facevi. Facce imbellettate, dove i dialoghi erano vuoti monologhi che non ascoltava nessuno.
Questa volta, per lui, era diverso da tutte le altre volte, da tutti gli altri vernissage. Giorgio lo sapeva e tanto gli bastava. Al diavolo gli altri, che se ne andassero pure a casa, voleva restare solo. Solo, in quell’ambiente finalmente vuoto, con la sola ragione vera che lo aveva spinto, con forza quasi sconosciuta, ad organizzare quella esposizione, dal titolo a lui tanto evocativo: Risvegli.
“La musica è da sempre il più forte catalizzatore dei ricordi,capace di riportare in superficie momenti sepolti della propria vita, fatti, accadimenti, sensazioni”. Fino ad alcuni anni prima, Giorgio si credeva immune a tutto ciò, si credeva un essere razionale, scafato dalla vita, incapace di reagire alle alchimie dei sentimenti. Eppure, quell’anno, a Parigi, era successo qualcosa che aveva minato nel profondo le sue convinzioni, erano crollate tutte le superfetazioni che, col tempo, avevano circondato il suo io sensibile, allontanandolo dagli altri, dalle altre cose viventi e pulsanti. L’anno, il 2015, il luogo, Rue Saint André des Arts, come un chiodo conficcatosi nel duro legno, tutto si era radicato nel suo cervello.
Stava andando a pranzo con un collega ed aveva notato un piccolo locale con, sulla soglia, una ragazza che stava parlando e ridendo. Era circondata da tele, appese alle persiane aperte, distribuite in maniera casuale, tanto da dare l’idea più di un Bric à Brac che di un negozio di quadri. Mano a mano che si avvicinavano, si sentiva provenire dall’interno una musica, una canzone che Giorgio riconobbe, I Love Paris, eseguita da Ella Fiztgerald. Le parole gli giungevano come in un sogno, capaci di cancellare ogni altra voce o rumore. Si bloccò in mezzo alla strada. Conosceva bene quella canzone, l’aveva sentita decine di volte, senza che però nulla del genere succedesse. Anzi, molte volte l’aveva considerata stucchevole, addirittura banale. Quel giorno no, era una droga che, suadente, gli stava penetrando nel corpo, catturando ogni suo pensiero, cancellando il resto del mondo. Il collega antiquario toccò Giorgio, riportandolo alla realtà. Proseguirono verso il ristorante e, durante il pranzo, Giorgio andò più volte con il pensiero a quel negozietto di quadri e fu per lui davvero arduo seguire i discorsi del collega.
Dopo il pranzo, Giorgio tornò verso il negozio che era rimasto fisso nei suoi pensieri, elemento unico e catalizzatore di sensazioni complesse, quasi indefinibili. Si sentiva un ragazzino, di fronte a qualcosa di nuovo, mai provato prima. La ragazza non c’era più sulla soglia, temette per un momento che si fosse trattato di una cliente e la paura di non poter sapere chi fosse, il suo nome, il perché si trovasse li in quel momento, lo attanagliò. Si avvicinò alla porta, l’ambiente era pervaso da una atmosfera di chiaro scuro che, tuttavia, gli permise di vederla. Era seduta e stava leggendo un libro, ogni tanto alzava gli occhi, ripensando forse a quanto appena letto o catturata da chissà quali pensieri. Intanto la canzone di Ella continuava ad accarezzare l’aria. Si chiese se era un caso se risentiva nuovamente lo stesso pezzo o se, al contrario, quella fosse la sola canzone che si ripeteva all’infinito. Aveva poca importanza, l’unica cosa che davvero contava era il piacere che ne traeva. All’improvviso, lei smise di leggere, alzò di occhi e chiese in cosa poteva essere utile, se gli interessavano i quadri, qualche quadro in particolare. Giorgio si rese conto che non aveva ancora guardato nessuna opera in particolare e fu in quel preciso momento che si accorse che le tele ritraevano il medesimo momento della giornata, il risveglio. Vi erano donne, uomini, giovani, bambini, vecchi, in ambienti diversi, tra cui un caravanserraglio ottocentesco. Erano incredibilmente belli, in ognuno vi era un elemento che focalizzava l’attenzione ed erano gli occhi della persona ritratta, colti nel preciso istante che separa il mondo onirico da quello reale. I colori degli ambienti ritratti erano quasi freddi, ma bastavano quegli occhi per riaccendere alla vita, ridare fiducia e speranza al nuovo giorno. Distolse lo sguardo dalle opere e, rivolto alla ragazza, disse che si, gli interessavano i quadri esposti, che erano davvero splendidi e se erano suoi. La ragazza disse che erano opera sua. Giorgio decise di comprarne alcuni e li indicò. Quando uscì, si rese conto di non aver chiesto il nome alla ragazza ma non tornò più indietro, pensando di farlo il giorno seguente. Il lavoro lo occupò per l’intera sua permanenza a Parigi e non tornò più in Rue Saint André des Arts. Negli anni successivi ebbe occasione di rincontrare la ragazza e di comprare altri quadri, poi, il Covid lo tenne lontano da Parigi per oltre due anni e quando ci ritornò, la sorpresa fu grande nel vedere che le persiane del negozio di quadri erano chiuse, pensò per ferie ma, sbirciando da una finestrella, si accorse che il locale era vuoto. Dopo innumerevoli domande, finalmente una signora disse che si, conosceva la ragazza, l’aveva vista l’ultima volta un anno prima, aveva caricato i quadri su un furgoncino ed era andata via, senza mai ritornare.
Qualche mese prima, aveva deciso di esporre i quadri comprati a Parigi, riservandogli un posto d’onore, vicino ad altre opere di artisti già affermati. Lo doveva a quella ragazza perché era stata capace di un miracolo, l’aveva fatto sentire di nuovo vivo.
Ora stava sistemando le ultime cose e si fermò di fronte al manifesto della mostra che si era inaugurata quella sera: l’immagine riprendeva uno dei quadri comprati a Parigi, quello del cammelliere nel caravanserraglio. Del viso, avvolto in un turbante, si vedevano solo gli occhi, capaci di ridare vita alla scena, come una torcia in un ambiente buio. Aveva scelto quell’opera, anche se ve ne erano esposte di artisti assai più conosciuti: un Risveglio, opera di una ragazza il cui nome gli era tuttora sconosciuto e che probabilmente non avrebbe mai più rivisto. Era stata lei che, inconsciamente, aveva risvegliato in lui l’amore per la vita, una vita vera, vitale, fatta di sensazioni e facce e sorrisi, al di là delle maschere che i più indossavano dalla mattina alla sera. Chiuse le luci e si incammino verso la Metro più vicina.
All’incrocio tra la 142ª strada e Lenox Avenue si sente la vita fremere ed esplodere; è argento vivo che si riversa su ognuno di noi e penetra nelle ossa senza chiedere permesso.
Il locale non è grandissimo ma è uno dei più frequentati di New York infatti brulica di giovani che non vedono l’ora di divertirsi e bere a suon di jazz; entrano dall’ingresso principale ognuno con due o tre accompagnatrici, con una mano sollevano il cappello di feltro e con l’altra accendono la sigaretta che hanno in bocca per poi stringerla lievemente tra il pollice e l’indice dopo aver lasciato cadere l’accendino nella tasca destra dei pantaloni. Per me invece il Cotton Club è quasi una necessità e, come ogni giovedì sera, eccomi qua pronto a raccogliere e mettere nella tasca destra dei pantaloni un po’ di quella voglia di vivere che un ragazzo di venticinque anni tornato dalla Grande Guerra dovrebbe spargere al vento.
Man mano che il volume della musica si alza, quello dei miei pensieri si abbassa fino a non sentirli quasi più ed ecco che arrivano le ballerine. Sorridono. Accenno un sorriso anch’io.
Mi incanto a seguire con gli occhi il movimento delle loro gambe verso l’esterno, con le punte dei piedi rivolte verso l’interno cercando di tenere le ginocchia unite; si muovono di continuo e ho come l’impressione che se si fermassero loro, allo stesso modo si fermerebbe tutto attorno me: il sassofono, la tromba e il pianoforte smetterebbero di suonare, le luci si spegnerebbero, tutti farebbero silenzio e i miei pensieri tornerebbero ad urlare.
La voglia di vivere ha bisogno di fremito, di movimenti, di salti, di deliri per rimanere aggrappata con tutte le sue forze alla mia tasca destra, altrimenti cade a terra; me lo disse la mamma quando da piccolo mi ero messo in testa di imparare a usare l’hula hoop che avevano regalato a mia sorella: “Forza George! Muovi di continuo il bacino, salta, spostati e non fermarti mai altrimenti cade a terra”.
Aveva ragione, sono anni ormai che sento di essere immobile e la vita ha smesso di girarmi attorno ed è caduta a terra; in serate come questa ne raccolgo un po’ sulle strade affollate di New York o sul pavimento del Cotton Club. Raccolgo un sorriso caduto per sbaglio dalle labbra, qualche attimo di spensieratezza volato via, un paio di occhi sereni incastrati in qualche ricordo, una manciata di sogni fuggiti dai cassetti…li stringo forte dentro ai pugni e li metto nella tasca destra dei pantaloni prima che scivolino via tra le dita. Ma non mi bastano più. Io rivoglio il mio sorriso, rivoglio i miei attimi di spensieratezza, rivoglio i miei occhi sereni, rivoglio i miei sogni. Io voglio liberarmi, Dio sa, Dio sa che voglio liberarmi.
Liberarmi da cosa vi starete chiedendo…eccola la sento…sta arrivando di nuovo…devo uscire da qua…mi guardo intorno…c’è troppa gente…non so dove scappare… non posso neanche nascondermi…non ho più tempo… ecco che si avvicina…mi ha trovato…non posso più evitarla.
Il cuore come una mitragliatrice accelera i battiti, il sangue nelle vene diventa di ghiaccio, la vista è annebbiata per il troppo fumo, i polmoni fanno fatica a respirare per i gas asfissianti, le gambe tremano, sento le urla tanto forti da dovermi tappare le orecchie con i palmi delle mani. Chiudo gli occhi. Ho paura di morire.
Dura un paio di minuti poi eccola allontanarsi, se ne va dopo aver logorato ogni centimetro del mio corpo. Piano piano il cuore rallenta, mi sento invadere da un calore che parte dai piedi e esplode sulle guance, torno a respirare, le gambe smettono di tremare, abbasso le mani. Apro gli occhi. Sono vivo.
Come ve lo spiego, come ve lo spiego che ho la guerra dentro?
E’ vero, la guerra è ormai finita cinque anni fa e dovrei ringraziare la vita per essere tornato, dovrei amarla più di qualsiasi altra cosa, dovrei viverla a pieno come stanno facendo i miei coetanei, ma non ci riesco perchè sento di avere un debito con la vita io. Mi spiego meglio: ho toccato con mano la sete di vendetta, ho visto occhi pieni di odio, ho sentito le preghiere urlate ad un cielo incredulo, ho ucciso, per dovere e non per volere, ma ho ucciso persone la cui vita non valeva meno della mia e da essere umano non posso essere perdonato, non voglio essere perdonato. Ecco perché quegli attimi, quelle immagini, quelle grida sono rimaste dentro di me…la guerra è rimasta dentro di me e si porta via quella spensieratezza, quei sorrisi, quella frenetica voglia di vivere con cui a fatica cerco di riempire la tasca destra dei pantaloni.
Lo spettacolo è finito e nessuno si è accorto di niente.
Battono tutti le mani per congedare le ballerine.
Io batto le palpebre per accertarmi di essere nel Cotton Club all’incrocio tra la 142ª strada e Lenox Avenue.
Tornano tutti a casa con le rispettive accompagnatrici.
Io torno a casa con la testa piena e la tasca destra dei pantaloni vuota.
Ero uscita di casa tardi…il sole, calando, stava arrossendo e il cielo era così bello che pareva un quadro di Monet. Quando uscii feci un respiro profondo, l’aria fresca mi invadeva i polmoni e, per quelle poche ore, avevo l’impressione di ritornare a respirare. Facevo passi lenti perché volevo che quel momento durasse più a lungo e, di tanto in tanto, chiudevo gli occhi e mi lasciavo trasportare dall’aria. Arrivai poi davanti alla porta di quel vecchio bar e, entrando, salutai il proprietario che mi stava aspettando appoggiato al bancone. Quando mi accorsi di essere in ritardo corsi a cambiarmi nel camerino in fondo alla sala. La musica era già iniziata, tutti prendevano posto attorno ai tavoli e, dopo l’assolo del sassofono, salii sul palco. Portavo un piede davanti all’altro, sorridevo, stendevo le braccia, piegavo le ginocchia a tempo di musica e muovevo i fianchi come i bambini dentro un hula hoop. Ero argento vivo davanti agli occhi di uomini che si godevano lo spettacolo in una notte che sapeva di jazz e fumo. Sentivo il peso del loro sguardo addosso, lo sentivo arrivare fino alle ossa e arrampicarsi fino al cuore. Eppure continuavo perché sapevo che era solo lì, tra un passo e l’altro, tra una nota e l’altra, era solo lì che potevo sentirmi veramente libera. Nella vita di tutti i giorni invece la mia libertà se la prendeva Lui, si divertiva a nasconderla e mi prometteva che me l’avrebbe ridata a tempo debito ma io ormai non volevo più giocare a cercarla. Invece lui continuava.
Mi guardava, seduto in quell’angolo, con il cappello che gli copriva il viso lasciando intravedere appena gli occhi, e il fumo della pipa gli si avvolgeva intorno dandogli un’aria risoluta. Non dava nessun cenno di approvazione, forse perché quella sera avevo scelto l’abito sbagliato o forse perché le scarpe non gli andavano bene…eppure a me piacevano. Mi facevano pensare a quando ero piccola, quando mi infilavo nell’armadio della mamma per rubarle qualche vestito con le piume e qualche cappello troppo grande per la mia testa troppo piccola. Sfilavo per ore davanti allo specchio finché non cadevo a causa di quelle scarpe così scomode ma così magiche perché mi facevano sentire grande. E io non vedevo l’ora di diventarlo…il problema, però, è che lo ero diventa davvero…Passati 20 minuti scesi dal palco, corsi in camerino e mi sedetti con le spalle contro la porta. Volevo rimanere sola, ne avevo bisogno, ma presto quel desiderio, come tanti altri, finì in frantumi. Sentii dei passi, lenti e decisi, venire verso di me. Avevano un ritmo costante, angosciante quasi. Spontaneamente mi alzai e indietreggiai mentre Lui aprì bruscamente la porta. Me lo aspettavo, sapevo già cosa stava per succedere e così mi preparai come ogni volta. Mentre Lui mi scagliava addosso parole urlate io chiusi gli occhi, strinsi i pugni forte come quando si raccoglie un mazzo di fiori e non lo si vuole far cadere. Poi mi avvicinai alla parete fino a sentire la superficie gelida sfiorare i polmoni. Avevo gli occhi lucidi, il sangue era diventato freddo e il cuore batteva così forte che pareva volesse fuggire dal corpo…e a chi lo dici, io più di lui volevo scappare lontano e non saperne più di quella vita. Non era quello che da bambina sognavo, non era così che mi volevo sentire, non era così che doveva finire la mia favola. Qui, però, finiscono i miei ricordi nitidi perché improvvisamente scoppiò un temporale, una pioggia di dolore che non fui in grado di controllare. Il suo vento mi faceva fischiare le orecchie, i suoi tuoni mi facevano diventare gli occhi viola, i suoi fulmini mi trafissero il petto e la pioggia mi opprimeva fino a soffocarmi. Poi silenzio. Lui aveva smesso. Il temporale era passato, ma questa volta era durato più del solito e, oltre a fulmini e gocce, si era portato via anche una vita di troppo. La mia.“mamma, se domani non torno, brucia tutto”, “mamma, se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”…anche io volevo essere l’ultima ma scopro che 100 anni non sono serviti a far passare la furia di quel maledetto temporale che colpisce ancora lasciando dietro di sé una scia di dolore. E così la mia vita era sparita dalla faccia della Terra, inutilmente, senza lasciare un insegnamento, senza riguardo, senza lasciarmi il tempo di capire che in realtà ero già morta da un pezzo. Me ne ero andata quel giorno in cui Lui decise che non avevo diritto alla felicità, che non avevo diritto a essere libera. E pensare che mamma me lo diceva sempre “stai attenta Evelyn…scegli quello giusto…non mettere la tua vita nelle mani di chi non sa come trattarla” Eppure mi ero innamorata, è strano ma è vero. Dio sa che mi ero innamorata. A volte però è inutile amare quando davanti si ha una persona con il cuore in pausa e, in questi casi, è meglio scappare più veloce che si può…prima che arrivi il temporale.