Le foto in bianco e nero ci osservavano, nella sottile brezza che faceva suonare le foglie e nel cinguettio di una famiglia di uccellini che festeggiava forse una nuova nascita.
C’era un caldo piacevole e leggero che ci accoglieva in quel, quasi, silenzio.
Di sicuro eravamo noi i silenziosi, ognuno indaffarato a qualcosa: Natale aveva appena parcheggiato il mezzo della Associazione Volontari, Pasquale spingeva delicatamente la sedia a rotelle e noi seguivamo tenendo le borse e qualche fiore.
Erano stati anni faticosi, ma oggi era stata una bella gita, papà voleva vedere la Sindone, ed eravamo riusciti ad organizzare grazie a Sonia che aveva trovato il mezzo giusto e le persone per accompagnarci.
Una giornata di quelle che sai già che non dimenticherai mai più, fatta di anime che si prodigano per gli altri e che attingono dagli occhi grandi di chi dovrebbe aver visto tutto dalla vita ma trova ancora uno stupore pieno e lucido nel essere dove i racconti dei nonni dei nonni hanno lasciato un segno incancellabile, di religione e misticismo.
Per tutta la mattina era stato un susseguirsi di gesti facili, code veloci, sorrisi e ringraziamenti che avevano curato ogni momento infelice passato, non c’erano le faticose alzate dal letto, le dolorose giornate di ospedale, i frequenti viaggi in ambulanza.
Non c’era più quello sguardo triste di un uomo, pilastro di tutti, che ora necessitava di tutti per fare una semplice cosa.
Non c’era più neanche la paura del domani.
Anzi tutto era così piacevole e allegro.
Era li ce ci aveva lasciato tutti sorpresi.
Mentre avevamo passato il nostro turno di meditazione davanti a quel lenzuolo sacro e pieno di storia, ci aveva chiesto di andare a Monasterolo, il paese dov’era nato e vissuto, e di cui ad ogni pranzo o cena in casa usciva un racconto, un aneddoto, qualche volta già sentito ad annoiare, ma che svelava poi sempre un retroscena nuovo, più o meno quell’occasione per noi figli di sottolineare la ripetitività della narrazione o la finzione del “mai sentito dire” che accelerava o rinforzava l’aggiunta di dettagli.
Noi ci guardammo e considerammo che non era così difficile, erano una cinquantina di chilometri in più dal programma, ma fattibili, così, più concentrati sul da farsi, che sullo scopo della richiesta, riorganizzammo il nostro rientro incamminando il nostro piccolo corteo verso il minivan che era parcheggiato poco distante.
Fu durante il viaggio su quelle strada conosciute e annoiate, che mi iniziò a sorgere il dubbio.
Parcheggiammo dove ci fece parcheggiare. Scendemmo tutti e lo facemmo scendere.
Non parlammo tra noi, solo sguardi incerti di adulti che non osano scambiarsi le emozioni.
Pasquale lo fermò sotto il cognome di famiglia, scritto in grandi caratteri bronzei, accolti da avi conosciuti, e alcuni solo narrati, che ci osservavano da cornici ovali.
Lui puntò il dito e disse che era lì che sarebbe stato, al terzo livello nello spazio piccolo, e si girò a voler guardare se il panorama da lì sarebbe stato buono, i cugini di fronte, i genitori lì accanto, un gruppetto di amici poco distanti qualcuno ancora vestito con abiti anni settanta.
Ecco dopo tutto il viaggiare di una vita che avevo conosciuto direttamente da quando ero nato, e indirettamente, nei racconti degli anni della sua gioventù eravamo lì, con lo spirito rasserenato dai gesti cerimoniali della mattina, e l’anima ferma in un luogo di memorie, in cui tutto si riuniva in un luogo e in un istante; le feste di paese, gli studi al collegio, il lavoro quotidiano, il vivere insieme ogni momento, gli amori, le discussioni, le risate e i mugugni.
Tutto era nello stesso tempo e nello stesso spazio.
Ritornammo dopo poco tempo, e ti posammo dove tu avevi detto, mi girai a guardare il panorama da quella posizione, e trovai i tuoi cugini, e i nonni e i tuoi amici fuori moda, e tornai bambino in un piccolo cimitero di un piccolo paese che ora era divenuto anche mio.
Tornai dopo pochi giorni, c’era da sistemare il marmo, e una famiglia di passerotti aveva fatto il nido nella tua nicchia.