E’ il punto di partenza da cui si muove il racconto: una parola, un’immagine, un riferimento. Come la bitta dalla quale si scioglie l’ormeggio per partire.

Bitta: 

https://www.youtube.com/watch?v=APehKENldMQ

E’ l’ambito in cui avviene la storia: la cornice cronologica o geografica o semplicemente la situazione che fa da confine all’avventura. Come il campo di regata in cui si muove un viaggio in mare.

Spazio: 

Oggi

E’ la durata della partita, con l’indicazione di eventuali manche e suggerimenti da dare.

Tempo: 

Il tempo massimo di regata è di 72 ore tra la data 9 Febbraio e la data 10 Marzo.

E’ il modo in cui si può raccontare: con parole, fotografie, suoni. Come la barca con la quale si naviga.

Mezzo: 

Parole scritte. Minimo 1500 massimo 3000 battute spazi esclusi

Stabilisce il fatto che le storie siano visibili a chiunque passa il porto (pubbliche) o soltanto ai membri dell’equipaggio che sta giocando/navigando (private)

Visibilità: Pubblico

Sono i suggerimenti che devono essere inseriti nella storia. Parole, immagini, riferimenti che possono essere utilizzati in maniera specifica o generale: ogni giocatore sceglie se coglierne lo spirito, citarli letteralmente, collegarne il significato. Boe intorno alle quali virare.

Boa 1:
Amore

Sono i suggerimenti che devono essere inseriti nella storia. Parole, immagini, riferimenti che possono essere utilizzati in maniera specifica o generale: ogni giocatore sceglie se coglierne lo spirito, citarli letteralmente, collegarne il significato. Boe intorno alle quali virare.

Boa 2:
Mare

Sono i suggerimenti che devono essere inseriti nella storia. Parole, immagini, riferimenti che possono essere utilizzati in maniera specifica o generale: ogni giocatore sceglie se coglierne lo spirito, citarli letteralmente, collegarne il significato. Boe intorno alle quali virare.

Boa 3:
Amaro

Equipaggio

AUTORE: Agne

TITOLO: Noi

AUTORE: Ali

TITOLO: Più forte della malinconia

In mezzo alla nebbia di Milano, esco fuori dall’ albergo. Sentendo subito il freddo entrarmi nelle ossa, mi stringo nel cappotto, aumentando il passo verso la mia macchina. Salgo e metto in moto, e dopo dieci minuti circa riesco ad arrivare a destinazione. Scendo dalla macchina e entro nel bar. Chiedo un tavolo, mi siedo e non posso fare altro che aspettare. Le gambe mi sembrano inchiodate al tavolo, non mi muovo, sto semplicemente lì, ferma. Ordino un caffè americano. Continuo ad aspettare. Il caffè arriva, lo sorseggio, mentre mi guardo intorno, cercando dei capelli rossi, o degli occhi verdi, un profumo alla violetta, un segno di lei. Dopo mezz’ora penso che lei non si presenti, non la biasimo. Infine, ecco lì una cascata di ricci rosso fuoco entrare nel bar. La vedo di spalle, alta, magra, bellissima, come suo padre. Poi si gira, e i suoi occhi incrociano i miei, pungenti, acuti, un bosco verde scuro in cui perdersi. Non sorride, ma con lo sguardo fisso nel mio, si dirige al tavolo. Non parla. Neanche io parlo, non ho mai saputo esprimere i miei sentimenti con le parole, le ho sempre trovare così banali, così scontate, così effimere, un vento che non rallenta mai la sua corsa. Le parole non ci danno il tempo di misurarle, scorrono veloci e aleggiano nell’ aria per un po’, volando via e lasciando ai silenzi il compito di sembrare pesanti, imbarazzanti, mentre secondo me nei silenzi c’è la nostra parte più vera, la capacità di capirsi senza parole, momenti in cui il tempo si sospende e si siede accanto a noi. Dopo un po’ capisco che deve andare, inizia a muoversi sulla sedia, si morde il labbro, come faceva da bambina. È tempo di darle la lettera, così la poso in mezzo al tavolo. La fissa un secondo, incerta se andarsene senza prenderla o meno, allunga la mano e la trascina verso di sé. È dentro una busta viola, il suo colore preferito. Si alza e va via, lasciandosi un profumo dolce alle spalle. Parte una canzone alla radio, “quello che non ho” di De André. Era la mia canzone preferita da giovane, la cantavo sempre con gli amici al mare, nei momenti spensierati della mia giovinezza, stroncati dall’arrivo di Silvia, un fulmine che si è scagliato su di me, incendiando la mia vita. Non ero pronta, non ero tagliata. Davide era spesso via, o per lavoro o con chissà quale delle sue tante conquiste. Io e Silvia eravamo sole, e mentre lei strillava io mi sentivo inghiottire da un mare di tristezza, per quello che non avevo, e per quello che mi era rimasto, un matrimonio infelice, costruito più sul dovere che sull’amore, e una bambina che amavo con tutto il cuore ma che non ero pronta a crescere. Sulle note amare di questa canzone, mi alzo dal tavolo, pago il caffè e esco dal bar, mentre de Andrè mi rimane nelle orecchie fino a quando arrivo in albergo. Penso alla lettera che le ho scritto, tentando di raccontarle la mia vita, come lei era arrivata all’ improvviso, come anche se non fossi pronta a fare la madre, l’avevo amata con tutta me stessa. Le avevo raccontato delle sere passate a guardarla dormire, degli abbracci che non avevo avuto il coraggio di darle. Non mi avrebbe perdonato, ma forse mi avrebbe visto per quello che ero, una donna stroncata dalla vita, tradita, abbandonata, che nei bar si commuoveva ascoltando de Andrè, e che la amava più di ogni altra cosa al mondo. Posteggio, entro nell’ ingresso dell’ hotel, appesantita dai pensieri. Alzo lo sguardo. Lei è lì. Seduta su un divanetto. Corro da lei e la abbraccio, mentre nella mia testa l’ ultima nota della canzone dice “quello che non ho,” e io finalmente mi accorgo di quello che ho. Mia figlia tra le braccia. Noi.

Andrea scherzava spesso dicendo che la musica era il solo amore a cui fosse rimasto fedele. Di donne ne aveva avute tante, e nemmeno ora aveva smesso di frequentarle. Ma mai niente di impegnativo: troppo imprevedibili, o troppo esigenti; comunque, non abbastanza interessanti. Non erano loro la sua ragione di vita. Lo era la musica invece, che per lui significava De Andrè: lo ascoltava da sempre – difficile non farlo, nella sua città -, conosceva a memoria parole e accordi delle sue canzoni, che fin da ragazzo suonava sulla spiaggia per gli amici. Bastava che lo vedessero arrivare, la sera, al solito posto, che qualcuno andava a prendere la chitarra e gliela metteva in mano. E sì, suonare gli era toccato per tutta la vita, e gli toccava ancora adesso, a settant’anni. In genere in qualche locale di città vecchia, dove conosceva il padrone. Non faceva concerti; semplicemente arrivava, verso le undici – mezzanotte, e si sedeva a un tavolo, accompagnato da qualche amico. E iniziava a cantare – solo ed esclusivamente De Andrè – sulle note della sua chitarra. E gli altri dietro. Cominciava sempre con “Quello che non ho”, il suo biglietto da visita, il brano che sembrava scritto per lui. Capace che, specialmente d’estate, il locale ormai semivuoto si riempisse di nuovo. Niente soldi, quelli non li voleva, ma qualche bicchiere di vino buono in compagnia era il compenso migliore. La sua voce calda, gli occhi profondi, la serenità che trasmetteva facevano nascere una simpatia istintiva nei suoi confronti anche in chi lo conosceva solo per il tempo di una canzone.
Aveva girato il mondo, da giovane, sulle navi mercantili, vivendo più sul mare che sulla terraferma – un’altra cosa di sé che gli piaceva raccontare. Ma quando aveva potuto era tornato nell’appartamento di sua madre, al quarto piano di una casaccia dei vicoli, quasi addossata ad un’altra, da cui la divideva una stradina stretta, di quelle che il sole del buon Dio disdegna. Aveva smesso di viaggiare perché gli bastava la sua città, respirarne ogni mattina l’aria satura di sale e di odori – di fritto, di pesce, di quella varia umanità che la popolava, soprattutto nel suo quartiere. Andava tutti i giorni a vedere il mare, far due parole con qualche vecchio pescatore o compagno di gioventù. Se aveva tempo, a parte nei mesi freddi, si faceva lunghe nuotate: conosceva i posti giusti, con l’acqua pulita anche in città.
La sua vita scorreva così, forse un po’ ripetitiva ma mai monotona. A volte Andrea si chiedeva se avesse scelto la solitudine (benché solo non si sentisse affatto) per paura che questa gli venisse imposta dall’esterno, come un calice amaro che non sapeva se sarebbe riuscito a bere fino in fondo. Anche per questo cercava di togliere ciò che non fosse essenziale – in particolare beni materiali, ma pure legami che iniziassero a stargli troppo stretti. Come con Molly, che gli aveva chiesto un figlio. Chissà come sarebbe stata ora la sua vita, se quarant’anni prima non fosse quasi scappato da quella relazione. Ma poi scacciava il pensiero: “Troppo tardi per cambiare rotta, impossibile tornare indietro. Quello che ho me lo sono conquistato. Quello che non ho non mi serve”. Che non gli mancasse neppure… di quello non era sicuro.
Ma lo consolava il pensiero che quella sera avrebbe di nuovo suonato, incontrato persone, intrecciato la sua vita con quella di altra gente. Solo per un istante, come gli era concesso. Ma gli bastava per correre più forte della malinconia.

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