Seduta qui a godermi il tepore del sole sul viso, con questo scenario innevato davanti, penso alla mia vita, al mio giorno zero. per tanti il giorno zero è il giorno della propria rinascita, per me invece è stato il giorno in cui tutto si è azzerato, in cui i battiti del mio bambino sono diventati zero. oggi sarebbe dovuto nascere mio figlio, sarebbe dovuto essere questo il mio giorno zero, il nostro. ma sono qui, a guardare questo paesaggio da sola, immersa in uno zero.

Lo scenario era perfetto. Se anno zero doveva essere, lo sarebbe stato con tutti i crismi. Primo, nella neve; poi tra le sue montagne, elette a “luoghi dell’anima”. Sospirò a quell’espressione, distante da lui come chi spesso la usava, volentieri a sproposito. Ada. Scacciò dalla mente lei e tutto quanto si collegasse al passato. Cosa può esserci, se non una sfilza di numeri negativi, prima dello zero? Si concentrò sui passi attutiti dalla neve, sul respiro, un po’ pesante in salita. Nella sua nuova vita, ci sarebbero stati più aria pura, più tempo libero. Meno pensieri non voluti.

“Dove vai…?”
Mi accorsi in quel momento che forse avevo sbagliato i miei calcoli. Mi stavo muovendo troppo in fretta, senza aver capito fino in fondo che cosa dovevo fare… ma avevo fiducia nelle mie sensazioni, potevo per una volta non starci a pensare troppo su. Così mi mossi verso l’uscita dello chalet, girando appena il viso per sorridergli, ma senza rispondergli. Mi colse l’aria fredda dell’esterno, l’odore della neve, il silenzio ovattato che dominava i dintorni. Sarei tornata in tempo per il brindisi e gli auguri, per festeggiare quel nuovo inizio di anno… Anno zero.

Evocando questo ricordo, ripercorro i pochi mesi della mia gravidanza: la felicità incontenibile, l’euforia, l’attesa, i pensieri che vanno a un viso infantile: avrà i miei occhi? Avrà i capelli ricci come il suo papa? Ora mi sembrano così estranei, delle diapositive sbiadite, che, pur essendo chiuse a chiave in fondo al cuore, trovano il modo di uscire e infestare i miei pensieri. Squilla il telefono, è Marco, mi sta cercando. Non rispondo, rimango ancora imbambolata a fissare il paesaggio, mentre quelle diapositive tornano al loro posto, in attesa di riemergere ancora.

A un ricordo solo si aggrappava – quello per cui del resto era lì. Elisa, quasi trent’anni prima, a Sauza, dov’era diretto. Nel cuore, le sue parole: “Se le cose cambiano, se la vita ci divide, diamoci comunque appuntamento qui tra…”. “A 40 anni! – aveva lanciato lui, entusiasta. – O a 50… ma chissà se ne avremo ancora voglia!”. Avevano riso, immaginandosi così vecchi. “Dai: primo appuntamento a 40 anni; se qualcosa va storto, a 50. Il 21 dicembre, come oggi, solstizio d’inverno. Facile. Tanto abbiamo la stessa età”. Si erano stretti solennemente la mano, seri e compunti.

Percorsi il primo tratto seguendo facilmente le tracce lasciate nella neve, perché la luce che filtrava dalle finestre rischiarava lo spazio intorno; ma, nel volgere di pochi metri, tutto fu inghiottito dal buio. Mi spaventai. In un attimo anche il ricordo più nitido del pomeriggio divenne confuso: quale direzione seguire? Cercai di non perdere la fiducia e provai ad aguzzare i miei sensi, primo fra tutti l’udito: e mi avviai verso il rumore che mi pareva di sentire addentrandomi nella pineta. Accesi la torcia del cellulare per farmi un po’ di luce.

Poi gli anni, nella loro girandola vorticosa, gli erano sfuggiti. Con Elisa era finita, con strascichi di sofferenza attutiti dal successo e dai soldi con esso arrivati. Il 21 dicembre 2013 gli era scivolato addosso che neanche se n’era accorto. Tutte quelle energie investite nel lavoro, nella smania di agire fare produrre ora gli apparivano per ciò che erano: tempo sprecato. La colpa di essersi integrato fino ad annullarsi nella Milano da bere era solo sua. Per fortuna è l’anno zero. Si volta pagina, pensò. Si rimedia. Si torna indietro, se necessario. Ecco Sauza, ecco la casa.

Avanzando, i rumori si facevano nitidi intorno a me: un ramo che lasciava cadere il suo carico, qualche tonfo, qualche sgocciolio. E anche una sorta di lamento flebile, un guaito sommesso più lontano, che speravo fosse reale e non solamente immaginato nella mia testa, tanto forte era il desiderio di ritrovare la tana che avevo visto nel pomeriggio. Avevo il rimorso di non aver agito prima, con maggiore lucidità o accortezza; ma speravo di rimediare ora, senza perdermi nel bosco notturno e facendo tutto in tempo prima che i miei amici si allarmassero. Un’inquietudine mi prese.

Un pettirosso si posa sulla ringhiera del balcone. Da sempre mi affascina quel gracile uccellino con una macchia rossa sul cuore, anche io ne ho una, una macchia nel cuore, che ha la forma di un bambino. Improvvisamente una bambina si avvicina, mi porge un fiore, ironia della sorte, rosso, come il petto dell’uccellino che ora sta volando via. Prima che le possa chiedere qualcosa, corre via. Quel piccolo gesto, così puro e inaspettato, mi smuove qualcosa nel petto, una flebile fiamma, dopo mesi di braci spente. Ed ecco che, dopo tanto tempo, finalmente, sorrido.

Prese dallo zaino la sottile lastra di pietra incisa: Elisa 1973-2023. Un incidente, pochi mesi prima. Glielo aveva telefonato quasi in tempo reale Mattia, l’amico di una vita, trait d’union con il mondo della sua giovinezza. “Per te”, disse piano, appoggiando accanto alla lapide un pettirosso di legno intagliato. L’uccellino a cui dava le briciole. “Vola leggera”. Un frullo d’ali improvviso, appena percettibile, lo fece prima trasalire, poi sorridere. E la neve piano cadeva.

Dopo questo sorriso, che come un bucaneve sboccia in inverno, decido che forse è tempo di arrivare in primavera. I miei pensieri vanno a Marco, lui che per me è sempre stato estate, ai suoi occhi azzurri, brillanti e limpidi, un mare azzurrino in cui poter naufragare felice. Ricordo di non aver risposto alla sua chiamata. Lo richiamo, e quando sento la sua voce, stavolta è il mio cuore, tanto malandato e distrutto, a sorridere. Dopo una lunga battaglia e tante ferite, decido di ributtarmi nel mare azzurrino, aspettando che le ferite, curate dall’acqua salata, diventino cicatrici.

Non poteva indugiare: il ritorno sarebbe stato lungo quasi quanto la salita, con le ciastre. Avrebbe trovato poi la sistemazione giusta per le sue offerte, che al momento appoggiò in una nicchia vicino alla legnaia.
Più scendeva, però, più si sentiva pesante. La gaffe con Ada era imperdonabile: in un impeto di generosità le aveva regalato un anello di brillanti, ignaro del suo significato più noto. Nulla lasciava pensare a un loro possibile fidanzamento – la parola stessa era desueta, assurda. Si era lasciato prendere, ma adesso cosa poteva fare? Era letteralmente sparito.

Ma il suono che sentivo non variava… Dunque era qualcosa che producevo io camminando. Chissà dove stavo andando…
Mi guardai intorno: c’erano solo alberi nel buio denso e, alzando lo sguardo, un chiarore lattiginoso.
Mi ero persa? Fortunatamente le mie orme nella neve mi consentivano di ritornare da dov’ero venuta. I fiocchi luccicavano alla luce della torcia, come brillanti seminati dal cielo. Guardai l’orologio: avevo ancora un po’ di tempo per cercare. E continuai come un pettirosso quando va in cerca di cibo da portare ai suoi piccoli, balzando da un albero altro.

Aveva deciso tutto da solo, come sempre: l’aspettativa sul lavoro, l’acquisto della casa a Sauza, la partenza improvvisa. Un nuovo inizio era la luce, in una vita vuota di significato. Aveva sbagliato a svalutare il passato: era proprio di lì e solo di lì la ripartenza. Comprese il senso del saluto a Elisa: non di lei sentiva la mancanza, ma del ragazzo di vent’anni che era stato, della sua sincerità e schiettezza. Avrebbe chiamato Ada, le avrebbe chiesto scusa, le avrebbe detto addio. Sotto la neve impalpabile, paradossalmente i propositi più ardui diventavano realizzabili.

Verso destra si apriva una piccola radura: finalmente mi sembrò di esserci. Puntai la luce alla base di un grande abete rosso e vidi la macchia scura del foro naturale che costituiva la tana di una volpe; quel pomeriggio, di ritorno dalla mia escursione, avevo visto tre piccoli volpacchiotti che sporgevano i musetti appuntiti e guaivano per vedere se la presenza che si avvicinava fosse quella della loro mamma. Mi ero fermata, intenerita e curiosa, ma non avevo cibo con me da lasciare. La nevicata improvvisa che era arrivata poco dopo mi aveva fatto temere che fossero in difficoltà.

Senza accorgersene si era messo a canticchiare Zero degli Imagine Dragons, leitmotif del bar sotto casa, e ad adattare i passi al ritmo rapido della canzone. Chissà se avrebbe trovato “un equilibrio in mezzo al caos” o se era suo destino oscillare tra estremi opposti, socialità e solitudine, rumore e silenzio, lavoro frenetico e inattività.
Rientrato alla locanda corse suo malgrado al telefono, dove con un allegro messaggio Ada, di partenza con amici, gli augurava buon weekend. Non si era illusa, né soffriva per lui. Si sentì sollevato e un po’ sciocco. Pronto per l’anno zero.

Mi avvicinai cautamente e posai per terra gli avanzi che avevo trovato nella cucina dello chalet; subito avvertii dei rumori nella tana e vidi lampeggiare nel buio due occhi attenti, sotto cui ne spuntarono altre paia. Sorrisi orgogliosa: avevo compiuto la mia piccola missione; decisi di lasciare le volpi al loro pasto e di ritornare sui miei passi di buona lena per raggiungere la baita. Mi sembrò che la strada fosse più corta… Mi affacciai dalla porta in tempo mentre tutti urlavano “Tre, due, uno…” e la canzone degli Imagine Dragons partiva insieme alla festa. Roby mi baciò.