Bitta:
Spazio:
Tempo:
Il tempo massimo di regata è di 72 ore tra la data 14 Settembre e la data 20 Ottobre.
Mezzo:
Parole scritte. Minimo massimo battute spazi esclusi
Visibilità: Pubblico
Boa 1:
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi. (Tonino Guerra)
Boa 2:
Boa 3:
Equipaggio
AUTORE: Anima blu
AUTORE: Animablue
TITOLO: I sogni sono organismi aerobi?
AUTORE: Beatrice Parola
TITOLO: L’aria: una cosa fondamentale per vivere
AUTORE: BluePanda
TITOLO: Ottobre
AUTORE: Carlotta
TITOLO: La mongolfiera
AUTORE: Chiara e Greta
TITOLO: Insieme sfrecciando su una nuvola a forma di vespa
AUTORE: Ciolaa
TITOLO: Esperimento
AUTORE: Debora Magnaldi
TITOLO: Aria
AUTORE: Deby07
TITOLO: L’ultimo respiro di Kevin
AUTORE: Dolli
TITOLO: L’audizione
AUTORE: dott ing lup man canonico
TITOLO: Un vecchio errore
AUTORE: ELI
AUTORE: Elisa
TITOLO: Il peso di ogni respiro
AUTORE: Francesca Giraudo
TITOLO: Vivi il momento come fosse il migliore
AUTORE: frododellacontea
TITOLO: La siesta
AUTORE: Giada
TITOLO: Grazie ad un colpo d’aria
AUTORE: Giampy
TITOLO: EQUILIBRIO
AUTORE: giocorra
TITOLO: Camilla e l’aria
AUTORE: Giulia Delpin
TITOLO: Ti regalerò una rosa
AUTORE: gondola
TITOLO: SALA DI DECOLLO
AUTORE: Greta e Chiara
TITOLO: Il bambino che non aggirò l’ostacolo
AUTORE: Hazel
TITOLO: Una lettura a “Le Jardin des Tuileries”
AUTORE: Ironwas
TITOLO: Fuggi, Soeren, fuggi!
AUTORE: Jules
TITOLO: Il mondo attraverso gli occhi di un bambino
AUTORE: LoShAmAnO
TITOLO: IL PRIMO RAGGIO DI SOLE DEL MATTINO
AUTORE: Martina.Bono
TITOLO: Una mia tipica giornata a Londra
AUTORE: Meghi
TITOLO: Il regalo migliore.
AUTORE: Michelle
TITOLO: vivi con ogni singola parte di te
AUTORE: Miss
TITOLO: Mi manca Aria
AUTORE: Nina
TITOLO: L’incontro
AUTORE: PB75
TITOLO: Volo d’autunno
AUTORE: Pier
TITOLO: La mia ora di libertà
AUTORE: rebecca
TITOLO: L’aria della città
AUTORE: Renato
TITOLO: “PERCHÈ FUMATE!?”
AUTORE: Sabrina Girodengo
TITOLO: La libertà di una risata.
AUTORE: sarachirio
TITOLO: l’aria come la libertà
AUTORE: Sofi
TITOLO: L’aria
AUTORE: Sofia Pasero
TITOLO: Farfalla
AUTORE: stella
TITOLO: UN POMERIGGIO INASPETTATO DI DICEMBRE
AUTORE: Teresa Costa
TITOLO: Ricordi di città
AUTORE: Tim Lake
TITOLO: Ultimo giorno di vacanza
AUTORE: unduetrepermarie
TITOLO: Aria di casa
AUTORE: Valentina Egle Maria
TITOLO: Sguardi tra nuvole in corsa
Devo uscire, sono in ritardo e non trovo niente in casa. Dovrei essere a lezione tra dieci minuti e sto ancora saltellando per il corridoio cercando di mettermi le scarpe e allo stesso tempo lavarmi i denti, il tutto senza svegliare le mie coinquiline o i nostri dirimpettai. Prendo di corsa la mia solita borsa di tela e il mio libro preferito e mi fiondo fuori dall’appartamento, alla volta della fermata più vicina della metropolitana. Resto senza fiato, colpita dalla folata d’aria fredda che mi investe e mi ricorda di aver di nuovo dimenticato che fuori è autunno inoltrato. Inspiro e mi soffermo a fare una foto mentale ad un angolo di cielo senza nuvole, azzurro intenso, che pare essere l’emblema della pace. Guardo l’ora e ormai è tardi, oggi perderò la lezione. Inizio a vagare senza meta tra le viuzze del centro storico e mentre mi aggiro di qua e di là sento la melodia di un sax, che mi ricorda mia mamma. Mi fa pensare a lei e a tutti i pomeriggi in cui insieme guardavamo film e musical con cui era cresciuta.
Gli organismi definiti aerobi si servono, per il proprio metabolismo, di ossigeno biatomico (O2), una delle componenti maggiormente costitutive di quel miscuglio di gas che chiamiamo aria. Per contro, gli organismi anaerobi sono accomunati dalla caratteristica di non richiedere, per il proprio metabolismo, la presenza di ossigeno, che può per loro risultare addirittura tossico.
A Cuneo l’aria è viziata e resa soffocante da forti concentrazioni di pettegolezzo, immesse in atmosfera dalla paura del diverso e da antichi dogmi culturali, che qui sono sfidati con più difficoltà che nelle grandi città. Se ne accorgono gli studenti che scendono dal treno partito da Torino; c’è meno spazio, a Cuneo, per essere chi sono davvero, ed è più facile incontrare per caso il giudicante interesse di persone già viste. E pensano che, a Cuneo, l’aria non sia adatta per diventare grandi.
Ma quella di Cuneo è pure un’aria che resiste, un’aria che conserva un po’ della sua respirabilità grazie al miracolo delle vicine montagne e all’attenzione per l’ambiente naturale, sociale e culturale di quella gente che non sopporta il sapore della resa e dell’indifferenza. Una brezza soffia in avanti le generazioni, le spinge oltre i sempre numerosi ostacoli del tempo. Porta con sé il sussurrio di chi è vissuto e ha combattuto per una città e un mondo più capaci di accogliere, condividere, fidarsi e lasciar respirare. Se ne accorgono gli studenti che scendono dal treno partito da Torino; si riempiono i polmoni di un’aria più pulita, e pensano che Cuneo sarebbe il posto perfetto per mettere su famiglia, qualunque cosa quest’espressione possa significare.
Che aria serve al metabolismo dei sogni? Non sto parlando dei frammenti liberi e selvaggi, così cari a Freud, che le menti dei più fortunati portano in dono di ritorno dalla notte. Intendo piuttosto quelle nostalgie dell’anima che qualcuno chiama anche desideri. Quella particolare specie di organismi che spesso ha a che fare con i bisogni, creando uno strano gioco di assonanza, che se l’etimologia si potesse inventare direi che i bisogni sono sogni doppi. Si annidano in altri organismi ospitanti e se, da una parte, spingono per trovare realizzazione, dall’altra spesso qualche ostacolo, esterno o interno, frena il loro avanzare.
Mi piace pensare che i sogni necessitino di soffi d’aria fresca e vitale per nascere, e di talento fluido, mescolato con solido impegno, per realizzarsi. Parlo di quando un essere umano, in qualsiasi luogo del mondo sia nato e cresciuto, mette mano alla sua passione e la fa concreta; la spinta vitale rende lo sforzo leggero, la tecnica lascia spazio all’improvvisazione, come nel migliore dei pezzi jazz.
Forse, invece, i sogni assomigliano di più agli organismi anaerobi, e si nutrono e crescono quando l’aria manca e toglie il respiro a chi i sogni li ospita, fino a farli stare male. Parlo di quando un essere umano, in qualsiasi luogo del mondo sia nato e cresciuto, perde i propri riferimenti, o sé stesso, e si ritrova boccheggiante in luoghi stretti, dove l’aria manca o si impregna dell’odore scuro di sigaretta, malattia, morte. Ed è in quel buio asfissiante che potrebbero prendere vita questi organismi, capaci di traghettare le anime fuori dagli abissi, a ritmo di una musica sempre nuova.
Non ho ancora capito quali siano le condizioni ideali di vita dei sogni ma so che dove questi riescono a proliferare, l’aria che si respira è più buona. Perché sono i sogni che da sempre fanno risorgere, creare, scrivere, cantare e ridere le donne e gli uomini, finché l’aria attorno alla loro testa si fa limpida e tersa come quella che, ancora, si ha la grazia di trovare sulle nostre montagne.
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.
Caro diario,
oggi ti voglio dire una storia che ci aveva raccontato la mia maestra delle elementari.
La storia raccontava di una bambina che viveva in Afghanistan dove da circa due anni c’era la guerra. Aveva tredici anni e prima del conflitto giocava libera nella sua città con i suoi fratelli. Quando la cittadina era stata bombardata quasi tutte le persone erano state evacuate dalle loro case, alcune, purtroppo, venivano uccise per strada. Quando la bambina aveva saputo che per diverso tempo non avrebbe più giocato con le sue amiche e non le avrebbe più viste era diventata tristissima. Durante il periodo dello scontro le persone dovevano rimanere chiuse in un bunker dove non c’erano finestre e vivevano tutte insieme. La maestra ci ha raccontato che la bambina mangiava pane e acqua, beveva pochissimo e dormiva su delle brandine. Stava con sua mamma e sua nonna perché suo papà era andato a combattere. I giorni passavano ma per lei era come se fosse li dentro da un’eternità. Non si ricordava neanche come si chiamavano le sue amiche, se stavano bene e come erano fatte. Non gli veniva in mente neppure la sua casa, la sua città, il viso di suo papà e di tutti i suoi familiari. Un giorno fece amicizia con una bambina e da lì giocarono insieme tutti i giorni, parlavano di come si sentivano, di cosa facevano prima che iniziasse la lotta e di tutte le loro preoccupazioni. Parlando si dicevano che non si ricordavano come era fatta la loro scuola e i loro compagni. Le ore trascorrevano lentamente e questa guerra sembrava non finire mai. La bambina che aveva conosciuto teneva anche un gatto e un cane quindi ogni tanto giocavano con loro. Avevano portato con sé qualche gioco ma non lo utilizzavano quasi mai. Da due anni non vedevano la luce del sole, il mare e non vedevano più il cielo azzurro. Al posto di quello vedevano un tetto grigio, fatto di mattoni. Non festeggiavano Natale, Capodanno e il loro compleanno da quando era iniziata la disputa. Dopo tanto tempo, l’8 agosto avevano annunciato che la guerra era finita, che avevano vinto e che persone potevano andare dai loro cari: i figli e le figlie andarono a riabbracciare i padri e le mogli poterono andare dai loro mariti e compagni. Quando la bambina uscì si sentì finalmente libera e sentiva l’aria che gli sfiorava il viso, cosa che non sentiva da tantissimo tempo. Percepiva un senso di autonomia e felicità nello stesso momento. Ad un certo punto, quando sentì i passi dei soldati arrivare, con le lacrime agli occhi andò a cercare suo papà insieme a sua mamma. Quando lo videro gli corsero in contro piangendo, erano felicissime. Mentre camminavano gli raccontarono cosa avevano fatto per questi tre anni. La figlia gli ha raccontato che aveva conosciuto una bambina della sua età che ci aveva giocato insieme ma non si ricordava il come si chiamava. Due settimane dopo, la bambina rincontrò le sue amiche e giocarono insieme come una volta.
Quando la maestra finì di raccontare ci disse che era una storia basata su una situazione realmente accaduta.
Ottobre.
La fioca luce dei lampioni tremolava nel buio di una gelida sera di Ottobre, lasciando spazio alle ombre, mentre la nebbiolina leggera che aleggiava nell’aria ricopriva ogni cosa di mistero.
Dal cielo iniziavano a scendere alcune gocce, i primi segni di un autunno ormai alle porte.
Sofia, avvolta nella sua giacca fuori taglia color prugna, camminava intirizzita verso casa, schivando i pochi passanti che ancora animavano la piccola piazza.
I suoi occhi osservavano i cubetti regolari del pavé assestarsi sotto ai pesanti anfibi di pelle nera.
Di tanto in tanto, alzava distrattamente lo sguardo in direzione delle case che si accendevano di vita per la cena.
La sua mente non riusciva a smettere di ripensare alla giornataccia appena terminata e a quelle che ancora l’attendevano.
Ad un tratto, nel silenzio, dalla finestra semiaperta al secondo piano di un alto palazzo, iniziò a risuonare una calda melodia che in breve riempì l’atmosfera.
Sofia interruppe la sua marcia militare e guardò in alto, mentre le gocce si facevano via via più spesse.
Le dolci note le ricordarono immediatamente i giorni della sua infanzia trascorsa in quella stessa città che ora le sembrava così fredda, distaccata, ostile.
Tutte quelle sensazioni le sembravano ormai così lontane.
Le tornarono alla mente le lunghe passeggiate al parco dopo la scuola, le ore trascorse con il naso all’insù a scrutare le nuvole fino al crepuscolo, le corse a perdifiato, i giochi, la semplicità.
“L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.”, le ripeteva sempre la nonna, citando un famoso autore, suo vecchio amico, che aveva conosciuto ai tempi dell’università e con cui era sempre rimasta in contatto.
Quella donnina di media statura, con i capelli raccolti in un ordinato chignon, dall’età imprecisata, per Sofia pareva avere tutta la saggezza del mondo.
Abitava in una bassa casetta azzurra situata in centro, uno degli ultimi baluardi che resistevano all’inesorabile avanzare di palazzoni e di scintillanti magazzini.
Alla nonna piaceva uscire di casa di prima mattina per osservare i colori dell’aurora e assaporare indisturbata i profumi della città, prima che orde di lavoratori prendessero d’assalto le vie principali, rubandone la poesia per far spazio alla frenesia.
Ai luoghi affollati preferiva gli angoli più tranquilli, discreti.
Sofia adorava sopra ad ogni cosa trascorrere del tempo con lei, la andava a trovare ogni qualvolta se ne presentava l’occasione e provava un profondo senso di tristezza nel doverla salutare.
Passavano lunghe ore a vedere spettacoli a teatro o tra le vie dei quartieri centrali ad osservare l’incessante via vai, prima di salire a bordo del tram che le avrebbe riportate a casa per la merenda.
Proprio da lei aveva ereditato quell’insaziabile curiosità per la vita.
Quando erano assieme tutto le sembrava così perfetto: quel tempo felice era volato via troppo in fretta.
La musica andò pian piano affievolendosi, per lasciare spazio alla meccanica pubblicità di uno shampoo alle alghe giapponesi dai miracolosi effetti.
Sofia, ancora immersa nei suoi pensieri, riprese il cammino verso casa, sotto una pioggia battente che non sembrava infastidirla.
Il suo andare frenetico aveva lasciato spazio a un passo più lento, assorto.
Continuò per tutto il tragitto a pensare a quei momenti che la melodia era stata in grado di risvegliare in lei: un senso di felicità le tenne compagnia fino a casa.
“L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.” Questa frase me la ripeto spesso, l’ho trovata in un libro che mi aveva regalato mia zia per il mio compleanno. Presenta parole con un significato assai profondo, che ogni volta mi fanno riflettere sempre di più. In questo periodo sto affrontando momenti difficili, dovuti soprattutto alla malattia di mio nonno. Il sogno di mio nonno era e lo è ancora adesso poter andare sulla mongolfiera; infatti, oggi ho trascorso la giornata proprio lì, l’ho dedicata a lui, e ci sono andata con la mia migliore amica, Marta.
Nel primo pomeriggio la mamma di Marta mi passò a prendere a casa, ci volle almeno un’ora per poter arrivare in quel posto che sapevo che mi avrebbe fatto bene. Arrivate, salimmo sulla magnifica mongolfiera colorata e partimmo per andare sempre più su, verso il cielo azzurro. Passammo un’oretta ad osservare meravigliosi paesaggi dall’alto, montagne, colline, pianure; a raccontarci quello che avevamo fatto e che ci era successo nei giorni passati; mi sentivo spensierata, felice, ma allo stesso tempo anche un po’ triste: pensare di non aver potuto passare quella giornata insieme a mio nonno mi fece venire un vuoto dentro, ma la mia migliore amica riuscì a confortarmi e consolarmi; sapevo che ci sarebbe stata nel momento del bisogno. Ad un certo punto, però, mi iniziò a girare la testa, persi l’equilibrio e caddi. Tutto questo accadde solo per pochi minuti. Ci volle un attimo prima di riprendermi, all’inizio vedevo tutto un po’ sfocato, i colori della mongolfiera ondeggiavano, ma con l’aiuto di Marta ritornai in forma velocemente. Continuammo il nostro “viaggio” nell’aria; i miei pensieri andarono solo ed esclusivamente a mio nonno. Sapevo che con lui sarebbe stato completamente diverso, mi sarei immedesimata veramente in quella frase del libro. “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. Continuavo a ripeterla dentro di me; mi sentivo davvero leggera, spensierata.
Rimasi a guardare il vuoto intorno a me; gli occhi mi brillavano, la mia testa era tra le nuvole. Un attimo dopo ritornai a seguire quello che mi stava dicendo la mia migliore amica, mi girai e le diedi un abbraccio. Fu un abbraccio speciale, c’era tutto l’affetto che provavo per lei, le feci capire quanto fosse importante e la ringraziai per tutto ciò che fece per me.
Dopo un’altra oretta la mamma di Marta mi riportò a casa. C’erano i miei genitori che mi stavano aspettando incuriositi di sapere com’era andato questo pomeriggio diverso dal solito. Raccontai loro tutto nei minimi dettagli, poi mi diressi verso camera mia. Presi il mio diario, una penna e scrissi una pagina sulla giornata che avevo trascorso, dedicandola a mio nonno.
Fu un giorno particolare quello che passai; mi fece stare bene, più felice e serena. Il periodo che sto vivendo è fatto di sfumature nere e grigie, ma la mongolfiera mi fece capire che bisogna prendere la vita a colori, anche durante i momenti più difficili, in cui uno si sente cadere, ma sa che la forza per rialzarsi la troverà.
Quell’aria fresca e chiara mi fece tornare quel sorriso solare per davvero, quella cosa che mancava in me da ormai troppo tempo. Nonostante tutto, riuscirò a superare questo periodo, far sì che il sole che ho dentro di me non si spenga mai e starò vicina a mio nonno più di qualunque altro.
Sapete perché a Londra piove spesso? La leggenda narra di questa nuvola di nome Cesare, la quale girava sui cieli di Londra sempre cupa e grigia…Litigava frequentemente con i suoi amici perché loro volevano che se ne andasse, ma lui era troppo testardo e rimaneva sempre lì. Un giorno, vide la sua amica Martina in compagnia di altre due nuvole che non aveva mai visto prima. Le chiamò e subito il suo sguardo cadde su una nuvola particolarmente luminosa e bella: era Gisella. Quando si avvicinò, iniziarono subito a parlare del più e del meno e Gisella, nonostante fosse un po’ arrabbiata con lui, scherzava sul fatto che faceva sempre piovere su Londra. Cesare, imbarazzato, arrossì e cercò di cambiare argomento, facendo finta di niente. A fine conversazione, Carla e Martina se ne andarono, lasciandoli soli. Cesare lusingato dalla sua bellezza, prese la palla al balzo e le propose subito una cena romantica, sui cieli di Parigi. Gisella emozionata accettò con il preteso che l’indomani nessuna goccia di pioggia sarebbe caduta su Londra. Cesare, spiazzato, promise che si sarebbe impegnato al massimo per Gisella. I due si diedero appuntamento sopra il Big Bang: lui aveva un bellissimo papillon a pois e lei indossava un vestino rosso molto elegante, perfetto per l’occasione. Cesare e Gisella saltarono sulla nuvola a forma di vespa di Giovanni, il papà di Cesare e volarono a Parigi. Finita la cena, visitarono un po’ la città dall’alto e iniziarono a conoscersi sempre di più: erano fatti l’uno per l’altra. Il giorno dopo nessuna goccia toccò Londra e Gisella si sentì fiera di Cesare. Ogni giorno le due nuvole passavano del tempo insieme e sempre di più la pioggia non scendeva in città. Si innamorarono, ma un giorno, un vento fortissimo soffiò nel cielo e Gisella, meno potente e forte di Cesare, venne spazzata via. I due innamorati ormai separati, non si ritrovavano più e Cesare, preso dalla malinconia, iniziò di nuovo a essere cupo e triste, infatti la pioggia su Londra era di nuovo persistente. Cesare litigava con tutti, anche con la sua amica Martina, mentre Gisella si trovava da sola sui cieli italiani. Una notte, le due nuvole, ebbero la stessa idea: tornare nel posto dove l’amore reciproco era sbocciato, Parigi. Si riconobbero da lontano e corsero una verso l’altra. Erano felicissimi, il destino li aveva fatti riconciliare. Dal loro amore nacquero delle bellissime nuvolette, che chiamarono: Amelie e Leonard. Una cosa che insegnarono ai loro figli: è che il destino esiste, forse non è già scritto da qualcuno, ma dipende anche dall’impegno e l’amore che ci si mette. Ad oggi Gisella e Cesare sono ormai nonni, con cinque nipotini da gestire tutto il giorno, per lasciare i figli e i loro amori per fughe romantiche a Parigi.
La città ha due livelli: la rocca, case di pietra scura aggrappate le une alle altre e cucite tra loro da fili di
viottoli sottili; e la piana, una distesa bassa di costruzioni, tra cui strade poco più larghe frusciano del rumore
delle tende e delle vite smosse dal vento.
In mezzo, la scogliera, incastrata tra un mare e un cielo d’acciaio.
La luce galleggia nell’aria del crepuscolo, le ombre si rincorrono con i bagliori rossi, viola e d’ambra. Il vento
tira in tutte e nessuna direzione, portando su dalla piana una musica leggera che frizza di vite di sconosciuti e
si mischia al tramestio sottile delle primissime stelle.
Dalla piazzetta sull’orlo della scogliera si vedono tutti i tetti delle case in basso, minuscoli, che come copertine
di manoscritti di un altro tempo custodiscono ogni storia di vita.
Contro il cielo, la luce morente e le nuove ombre si addensano, impastate d’aria: due figure, in piedi
sull’acciottolato, scalze. Una minuta, gli abiti chiari a strati, veli e qualche lustrino, ondeggia le dita nell’aria,
seguendo il rimbalzare delle note che arrivano dalla piana. I muscoli delle braccia guizzano e scorrono sotto la
pelle, danzando a ritmo di musica. L’altra alta, oppone all’aria le spalle ampie di dignità, da cui pende una
giacca antracite, stretta in vita e lunga fino ai polpacci, l’orlo decorato d’argento che serpeggia nel vento sottile.
Si avvicinano al margine della scogliera con passo leggero e due paia di occhi, grandi di vitalità gli uni, liquidi
della più battagliera fragilità di questo mondo gli altri, scandagliano lo strapiombo ai loro piedi, ricolmo
soltanto d’aria.
Inspirano.
Il tempo oscilla in silenzio: due passi rapidi, il terzo già si spicca dall’acciottolato dentro lo strapiombo, verso
il mare.
Espirano.
I veli chiari fluttuano contro luce, ondeggiando lenti nell’aria. Decisamente più in basso, l’orlo d’ombre e d’argento freme tagliando il vento in cerca del fondo della scogliera infinita.
Inspirano.
I polmoni si riempiono e l’aria si fa sempre più sottile, sempre più labile, fino a scomparire.
Vuoto.
Nient’altro, incastrato tra un mare e un cielo d’acciaio.
Gradualmente, la scia scura d’ombre rallenta la sua caduta, le gambe slanciate e le mani grandi ed affusolate
sorrette dal nulla, fino ad affiancarsi allo scintillio di lustrini che con grazia prosegue la sua discesa.
Si prendono per mano.
Il tempo continua a danzare, nel suo oscillare silenzioso e senza attrito.
I due corpi cadono insieme.
Il mare al fondo si fa sempre più vicino, metro dopo metro.
Nello stesso preciso, esatto, momento raggiungono il fondo: con leggerezza ammortizzano la caduta, in piedi
sulla battigia, la risacca infranta solleva fili e perle d’acqua, che brillano per un attimo e poi si spengono.
Espirano.
Con un impercettibile frusciare l’aria stride fuori dalle labbra e torna a riempire lo strapiombo. Il vento si fa
largo tra la calce ruvida delle case della piana, scompigliando la frangia chiara e scostando dalle spalle i lunghi
ricci corvini, e risale poi rapido verso la rocca.
Dalle costruzioni più vicine minuscole bollicine di musica rotolano fino sulla battigia e la luce appuntita delle
stelle sempre più fitte le scoppia una per una.
Ridono.
L’aria si rischiara in un sussulto di luce e per un attimo i bagliori rossi, viola e d’ambra riprendono a fare le
capriole insieme alle ombre.
Si incamminano verso le case, mugolando a mezza voce una melodia lontana, per cullare le storie di vita
custodite dietro quelle mura.
Il piombo rallenta e cade a terra con la sua piuma.
L’aria è quella cosa che ci circonda e che respiriamo continuamente. È essenziale per tutti noi, altrimenti non potremmo vivere. È composta da vari elementi, ma se ne mancasse anche solo uno sarebbe un problema. Non la vediamo con i nostri occhi perché è trasparente, poiché l’essenziale è invisibile agli occhi; cioè che essa è essenziale per l’essere umano.
Uno dei problemi legati all’aria è l’inquinamento dovuto ai fumi delle fabbriche e delle ciminiere. Inoltre respirando l’aria inquinata, rischiamo di andare incontro a delle grosse problematiche, come ad esempio i tumori. Spesso chi termina un lungo periodo di lavoro svolto in fabbrica, come ad esempio nelle fabbriche, si ritrova ad avere patologie gravi e che si diramano per tutto il nostro organismo con il passare del tempo, come ad esempio il cancro. Inoltre sono malattie che sono molto dolorose e che portano quasi sempre alla morte. Per questi motivi bisogna preservare il più possibile l’aria e tutte le sue componenti riducendo il più possibile le sostanze inquinanti.
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi. Essa ha moltissimi benefici se pura e pulita. Il luogo più piacevole dove respirare aria buona secondo me è la montagna. Trovo che li ci puoi trovare l’aria pura del pianeta. Infatti stimola l’ossigenazione dei tessuti. Anche perché in alta quota la presenza dell’inquinamento diminuisce, e può alleviare il fastidio di allergie o raffreddori che provengono da esse. Oppure lo stesso beneficio si può avere al mare, stando in spiaggia e respirando l’aria salina e ricca di ottime proprietà.
Si possono riassumere questi concetti in una breve storiella:
Un giorno l’Aria vagava per l’universo. Girando fra i vari pianeti, ne scelse uno, che diventò il suo preferito il suo preferito: la Terra. Così decise di andarci ad abitare. Inizialmente si annoiò un po’ perché non c’era alcun tipo di forma di vita. Arrivò ad un punto di volersene andare! Ma iniziarono a comparire i primi organismi e paino piano tutte le piante, i fiori, gli animali e alla fine anche gli umani.
All’inizio tutto procedeva per il meglio, ognuno si faceva la propria vita e gli umani non disturbavano l’Aria e lei non disturbava loro. L’Aria vagava tranquilla, sembrava musica che echeggiava nell’atmosfera.
Improvvisamente la vita della povera Aria cambiò: cominciano a comparire dei grossi cilindri grigi che gli umani chiamavano fabbriche e poi delle cose quadrate con delle ruote, che essi chiamavano macchine. Ma alla poveretta non piacevano per niente: se prima era pura e fresca e gironzolava per il pianeta, adesso era diventata pesante e grigia. Si rattristava vedendo la sua Terra così scura e triste: ricordava i bei momenti di quando era rigogliosa di fiori e di verdi alberi.
Così decise di punire gli umani: scatenò degli uragani e delle forti raffiche di pioggia e di vento. Gli uomini si accorsero del problema e di che cosa stavano causando al loro stesso pianeta. Quindi decisero di allearsi tra di loro, per promuovere delle leggi che potessero proteggere e tutelare l’ambiente, per ritrovarlo pulito e puro, proprio come gli era stato dato. L’Aria quando venne a saperlo decise di premiare i suoi amici umani, chiedendo al suo amico Sole di splendere per tutto il mese di luglio e di regalare una bella estate a tutti loro.
Per tutti l’aria è qualcosa di esigue importanza, non è significativa; ma per Kevin Non è cosí, per lui l’aria è fonte di vita, lui è un sognatore, gli piace stare con la testa tra le nuvole, gli piace viaggiare con la mente, lasciarsi trasportare dall’aria. È una normale giornata d’autunno e Kevin si trovava in un bar della città; di sottofondo si poteva sentire un noto brano jazz e all’ interno del locale erano tutti impegnati a guardare il telefono o lavorare al computer, per Kevin quelli sono tutti uomini-macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore, sono persone che per tutta la loro vita hanno visto solo degli schermi con in secondo piano delle immagini sfocate di paesaggi e persone, sono uomini e donne che non si ricordano più com’è sfrecciare in bicicletta con l’aria che accarezza il viso, non sanno cosa si prova a guardare un tramonto con qualcuno a cui vogliono bene, non sanno più cosa voglia dire vivere.Kevin sobbalzò, si era di nuovo perso nei suoi pensieri e la voce della cameriera l’aveva fatto cadere dalle nuvole,il locale era pieno di persone, persino le coppie sorseggiavano il loro caffè senza degnarsi di una parola o di uno sguardo;Kevin si inoltrò nelle strade di Parigi.
Kevin dopo essersi innamorato di Parigi e dell’ambiente di quest’ultima decise di trasferirsi. Amava tutto di quella città francese, le persone, le strade, era persino affascinato dai turisti che la visitavano perché gli ricordavano le emozioni che essa suscitava alla prima visita. Ma la cosa che amava di più di Parigi era la sua aria, nell’aria della città lui sentiva il profumo delle panetterie,l’amore delle persone, la felicità, l’aria forse era la sua parte preferita di Parigi.
Ma ora non era più così, gli amanti mostravano il loro amore solo nelle foto sui social,i bambini non uscivano a giocare,persino i turisti pareva non provassero più emozioni si limitavano a scattare qualche foto e litigare con i commercianti per gli assurdi prezzi rivolti ai turisti.
Tutti ciò rattristò Kevin, il quale decise di recarsi a Le Jardin du Luxembourg; amava questo posto perché,si sedeva sempre sulle panchine di questo parco ad osservare gli artisti di strada, persone che provano un grande amore per la musica e la eseguono come fosse l’ultima cosa che gli rimaneva, Kevin si sedette su una di quelle panche e ascoltò quell’arte fino a tarda sera.
Quel parco riusciva a farlo stare meglio, ma non era abbastanza, senza l’aria che era presente fino a qualche anno prima a Parigi Kevin non riusciva ad andare avanti,e oramai aveva 50 anni, non voleva più spostarsi in un’altra città, ma era consapevole che stare a Parigi gli avrebbe negato di continuare a respirare l’aria che tanto amava.
Si era fatto tardi, quindi Kevin decise di tornare a casa in bicicletta; l’aria era fredda e pungente e colpiva il suo viso come tante piccole lame.
Delle gocce calde gli solcavano il viso;era sopra i binari quando l’allarme iniziò a suonare, un treno si stava velocemente avvicinando,Kevin era come paralizzato, un’ingente quantità di pensieri gli passarono per la testa,ma neanche uno era volto alla sua salvezza.
Kevin pensò che se fosse morto magari avrebbe respirato un’aria diversa, avrebbe potuto sognare senza essere giudicato,l’ultimo suo pensiero fu” l’aria è quella cosa leggera che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi” e realizzò che quell’aria che stava respirando non lo rendeva felice.
È così rimase fermo dov’era, il treno lo colpì,ma l’ultimo respiro di Kevin fu terminato con un sorriso.
L’AUDIZIONE
Si respirava un’aria strana nella sala di danza al primo piano del Teatro Nuovo di Torino.
Pesante. La tensione pareva tagliarsi con il coltello: sguardi furtivi, sorrisi indecifrabili mentre, con rinnovato vigore, le ballerine si esercitavano alla sbarra.
Mezz’ora di riscaldamento e poi sarebbe iniziata l’audizione e, per chi veniva scelto, un altro mondo: tre mesi in tournée con la compagnia della Royal Danish Ballet School di Copenaghen.
Un’esperienza prestigiosa, quindi. Assolutamente da non perdere. Peccato però che fosse riservata soltanto ad una persona.
Io, con la mia caviglia fasciata, in seguito ad una vecchia distorsione, me ne stavo tranquilla in disparte, quasi sollevata di non poter partecipare. Non mi era mai piaciuto del resto mettermi in gioco. Triste cosa poi sentirsi un goffo anatroccolo in un mondo abitato da cigni eleganti.
Mentre ero immersa in quei pensieri astrusi, Veronica, finito di eseguire un arabesque perfetto, si era avvicinata con sguardo abbattuto: “Ho deciso, non partecipo. Gianni dice che è meglio che smetta e cominci a lavorare a tempo pieno nel suo bar. E poi non credo di essere all’altezza.”
“Ma che dici, Vero, sei fuori? Non puoi perdere un’occasione come questa. Tu sei nata per ballare. Lascia perdere i discorsi del cazzo del tuo ragazzo. Almeno provaci. Se poi sarà una sconfitta, pazienza, ma non partire già perdente in partenza. E tieni su gli scalda muscoli che fa freddo. ”
“Va bene, provo. Ma sappi che dopo sarai costretta a consolarmi… ”
“ Una cioccolata da Fiorio?”
“Sì, ma con panna” aveva annuito sorridendo tornando alla sbarra.
Dopo una decina di minuti era stata chiamata sul palco. La performance richiesta: una libera interpretazione di danza sul brano “My favorite things” di John Coltrane.
Come la musica jazz si era diffusa Veronica aveva iniziato a muoversi su quelle note struggenti, assecondandone i ritmi, gli accenti. Un movimento fluido, dinamico, dove la perfezione dei gesto tecnico si fondeva con una capacità espressiva incredibile. Gioia, sensualità, malinconia scaturivano continuamente dai suoi gesti. Persino il viso, lo sguardo pareva trasfigurato in quell’interpretazione. La sua danza era come una poesia, i suoi movimenti: le parole che la componevano.
Mi veniva in mente la citazione di Isadora Duncan “Ho danzato su questa musica come una foglia portata dal vento.” Un’immagine bellissima, evocativa. Ed era la stessa emozione che leggevo sui volti dei presenti.
Quando era scesa l’avevo abbracciata forte: “Sei stata magnifica, credimi. Qualunque sia il risultato, li hai stregati tutti.”
“ Sarà, ma sento che più che mai ora ho bisogno di una bella cioccolata.”
Così, recuperati i borsoni, ci eravamo dirette verso piazza Vittorio, passando per il Valentino.
Piacevole camminare in quel bellissimo parco, scaricando la tensione accumulata. Osservare le foglie degli alberi che, con l’incedere dell’autunno, pian piano avevano iniziato a cangiarsi in un morbido giallo ocra, acceso talvolta da bagliori aranciati o rosso fuoco.
Arrivate nella piazza, una pioggia lieve aveva preso a scendere sulla città. Cercato riparo sotto i portici di via Po, nel giro di poco c’eravamo ritrovate sedute al calduccio da Fiorio.
Di fronte a due cioccolate fumanti, un messaggio era arrivato sul mio cellulare inviato da un amico in giuria.
“ Alex” ho affermato, leggendo il display, con finta indifferenza.
“ Alex…” ha ripetuto Veronica con sguardo smarrito, torcendosi le mani. “E che dice: ho fatto schifo? “
“ Di comprare un biglietto per Copenaghen.”
Aria, aria! Era ora di uscire all’aria aperta.
Erano giorni che si nascondeva, ma alla fine quelli l’avevano trovato lo stesso.
– Che cosa ho fatto di male? Si può sapere?
– Ho fatto un errore? Ero in buona fede, maledizione!
– Magari avrei potuto fare più attenzione, ma come hanno fatto a scoprirmi?
Il dottor *, un chirurgo di grido, un professionista stimato che una volta ha commesso un errore e ora è braccato, circondato, spalle al muro.
Anche nascondersi, anche sparire dal giorno e vivere solo di notte non è servito a nulla, quelli non si sono arresi: l’hanno trovato, l’hanno chiamato, hanno continuato a ricordargli quel maledetto errore: “Lei ha sbagliato, se ne rende conto?”.
Sempre una voce diversa, sempre un tono diverso ma il succo è quello: ti inchiodiamo a quello che hai fatto! Errore di gioventù, errore di leggerezza, ma sempre errore!
Ogni giorno la stessa scena: squilla il telefono, il cuore accelera, le tempie pulsano, guarda il display:
– Eccoli di nuovo
Anche tre, quattro volte al giorno, anche in ferie, anche nei weekend…
Il numero di telefono! Diverso tutte le volte, eppure per qualche strana ragione riconoscibile da subito: è inutile bloccarlo, sono numeri usa e getta, ogni volta un numero nuovo. E ogni volta il nodo che lo prende alla gola, lo stesso senso di oppressione di sempre, la consapevolezza amara di quello che succederà!
Una boccata d’aria, finalmente! Finalmente il cielo luminoso! Nascondersi non è servito, allora perché continuare quella vita? Che senso ha avuto quel sacrificio?
Certo, di notte non chiamano! Solo turni di notte, in sala operatoria dove il cellulare non si usa!
Anche di notte capita di dover ricucire vittime di incidenti! Chissà se qualcuno di loro è uscito fuori strada perché ha risposto al telefono: chissà se qualcuno di loro è stato beccato allo stesso modo…
Poi di giorno a dormire, e quando si sveglia via di casa: scappare, cercare nascondiglio tra la folla, il telefono spento per non essere raggiunto…
– È una vita? Ma come mi hanno scoperto? Chi mi ha tradito?
Oppure… reagire! Passare al contrattacco!
Una bomba!
Ricorda l’esame di chimica… Il nitrato d’ammonio si trova nei fertilizzanti, un po’ di carbone, alluminio, un innesco gagliardo e il gioco è fatto! BUM!
Sarà difficile scovarli tutti, nelle loro sedi all’estero chissàddove, nei covi mimetizzati tra anonimi palazzi di periferia.
– Una soluzione, brutale e primitiva, ma sicuramente definitiva: à la guerre comme à la guerre. E poi sarà tutto finito e la mia vita tornerà come era prima!
Serve un piano, occorre organizzarsi nei dettagli.
Mentre pensa questo fuori è una bella giornata, un cielo azzurro meraviglioso e ancora qualche nuvola dopo l’acquazzone di stanotte che ha lavato tutta la città: il cielo la illumina a festa. Il cuore, la testa, il respiro sono improvvisamente leggeri.
Esce, vuole godersi la vita, succhiarla fino in fondo: magari oggi non chiamano! È già successo che non chiamino, anche per due o tre giorni di fila.
Ma quando non chiamano è un’altra angoscia: diversa, più sottile, più strisciante.
– Perché non mi cercano più? Che gli ho fatto?
– Vuol dire che ormai sono condannato?
– Davvero mi considerano un caso senza più speranza? Un limone che non vale più la pena spremere?
– Allora è vero che quel maledetto errore mi porterà alla rovina?
– Certo, loro ti offrono una soluzione, ma a che prezzo?
– Sì, oggettivamente me lo posso permettere, ho un bello stipendio, ma smetteranno di tormentarmi?
– E gli altri? chi mi dice che pagandone uno non sarò più cercato dagli altri? Chi mi può assicurare che la mia vita sarà di nuovo quella di prima?
Prima di quel maledetto errore, sembra una vita fa…
– Ma perché oggi non chiamano, maledetti! Perché?
Proprio allora il solito motivetto jazz, la solita canzone dalla giacca, suadente, morbida… la tasca illuminata dal display acceso, il numero – uno di quelli: sono loro! Sì!
Un respiro profondo e via, risponde di getto: appena la voce dall’altro capo inizia a parlare è chiaro quello che già aveva intuito, sono loro!
“Pronto, parlo con il signor *? È lei l’intestatario del contratto luce? Ci risulta che ha scelto ai tempi una tariffa completamente inadatta alle sue esigenze, si rende conto di che errore ha commesso?”
Sento quest’aria nativa, frizzante che mi travolge ogni volta che ritorno a casa e profuma di lei. Lei che mi dava il buongiorno con un sorriso, lei che mi rallegrava le giornate con un quadretto di goloso cioccolato al latte, lei che aveva il pollice verde brillante, lei che mi rattoppava i calzini, lei che aveva un’aria severa ma che si rivelava sempre di una dolcezza inaudita… Lei, nonna Carmela. Annusando quest’aria riesco a percepirla in qualche modo, la sento ogni qualvolta che la brezza marina mi accarezza le guance, la sento ogni volta che il vento da nord soffia e fa rabbrividire, così immagino i suoi maglioni di lana vera e mi sparisce il freddo che mi circonda.
L’aria di casa, adesso che lei non c’è più, non è la stessa, c’è una mancanza come se qualcosa fosse venuto meno. D’altronde l’aria è composta da vari elementi essenziali che devono essere in equilibrio e armonia: non c’è aria senza ossigeno, non c’è aria senza azoto, non c’è aria senza anidride carbonica… E’ l’aria che ci tiene in vita
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi. Questa è la frase su cui rifletto mentre fisso il soffitto bianco della stanza d’ospedale. E’ una frase che mi insegnarono alle medie e non la capii, forse perché non sapevo ancora quanto è importante l’aria e quanto è importate che questa circoli continuamente nel nostro corpo. Ora ho capito, o almeno così penso, cosa significa che l’aria e leggera, che sta intorno a noi e che è più chiara quando ridi. L’aria è leggera perché nessuno le dà molto peso, tutti la danno per scontata anche se proprio così non è. L’aria è intorno a noi perché ci circonda che noi lo vogliamo o meno. L’ultima parte della frase è quella che ho fatto più fatica a capire, ad oggi la interpreto come se l’aria fosse la vita e sì, se nella vita ridi è più semplice, questo l’ho provato sulla mia pelle.
Oggi sono esattamente sei mesi dall’incidente che ha fatto pensare a tutti i famigliari che non sarei tornata a respirare con i miei polmoni. Ricordo poco dell’incidente: una domenica in montagna, il mio piede sinistro che scivola e poi buio. Mi sono svegliata in una camera di ospedale con un macchinario che respirava al posto mio e qualche fasciatura sul mio corpo. Ad oggi sono tornata a respirare autonomamente, ma non è stato semplice. All’inizio controllare ogni mio respiro era l’unico modo per non urlare dal dolore. Vengo svegliata dai miei pensieri dal suono della porta che si apre per poi richiudersi. Ruoto la testa a destra e incontro lo sguardo del dottore che segue il mio caso dall’inizio. “Buongiorno dottore” lo saluto mentre sistema quella che penso sia la stampa della radiografia che ho appena fatto. “Buongiorno, come si sente?” così inizia la visita di routine.
Una volta finita la visita e aver avuto la meravigliosa notizia che la prossima visita non sarà tra un mese, ma tra tre; mi dirigo verso l’uscita dell’ospedale. Esattamente come mi aspettavo davanti all’ospedale vedo la macchina di mio fratello con lui al posto del conducente che mi aspetta. Appena salgo sfrecciamo via per tornare a casa.
“Alex, questa non è la strada per andare a casa” non stacca gli occhi della strada, mentre io lo guardo dubbiosa. “Lo so piccolo genio” “Sempre gentile, comunque dove stiamo andando?” “Non te lo dico” insisto per qualche minuto, ma mi arrendo quando mi dice che siamo quasi arrivati. Dopo circa un quarto d’ora accosta la macchina e la spegne, poi apre il vano portaoggetti e ne tira fuori una benda. Anche se con la mia opposizione mi benda gli occhi e la sensazione che provo mi riporta in mente un’immagine molto chiara. Un capo che svetta tra i tetti della città di cui gli occhi sono coperti dalle nuvole, un po’ come la benda che in questo momento mi copre gli occhi. I miei pensieri vengono interrotti dalla portiera che si apre e da mio fratello che mi fa scendere dalla macchina. Mi guida mentre camminiamo in direzione di qualcosa, una meta. Già pochi passi dopo sento i polmoni bruciare e le nuvole che prima identificavo sugli occhi ora mi sembra che si siano sparse su tutto il viso e che non mi permettano di respirare. Ricomincio a controllare ogni respiro sperando di non dover obbligare mio fratello a fermarsi. Dentro, fuori, dentro, fuori, dentro, fuori. I polmoni continuano a bruciare, ma riesco a respirare con un ritmo controllato. Quando Alex si ferma mi fa sedere a terra e percepisco l’erba morbida sotto di me e i raggi di sole che mi penetrano la pelle. Fa partire una melodia dal telefono e poi mi fa alzare. Mi toglie la benda e appena apro gli occhi la prima emozione che provo è paura. Mi ha riportata in montagna, esattamente dove mi ero ripromessa di non tornare mai più. “Portami via, ti prego” “No. Ti tengo io” La sua stretta su di me mi calma e allora riapro gli occhi e guardo la meraviglia che ho davanti davanti con la melodia che, insieme alla stretta di Alex, mi infonde tranquillità. La città che si estende sotto di noi, le altre montagne che svettano in lontananza, il cielo azzurro e l’aria. Respiro l’aria fresca e pulita, respiro e mi ricordo di quanto sia semplice. Smetto di pensare al peso che ogni respiro ha per i mei polmoni ancora deboli e mi sento viva, di nuovo.
Ogni giorno è composto da 24 ore, che corrispondono a 1440 minuti che a loro volta corrispondono a 86400 secondi. Quindi perché sprecare tutto questo tempo a pensare a qualcosa che non è permanente ma solo una sensazione momentanea.
Ci sono persone che non riescono ad andare avanti che si bloccano e si soffermano a pensare a quell’errore che hanno commesso.
Per cercare di sfuggire alle paranoie spesso fanno qualcosa che li possa far fermare per un momento.
Le tentano tutte, iniziando da una cosa poco nociva come dormire per interi pomeriggi per sfuggire agli impegni fino a utilizzare sostanze stupefacenti che li rassicurano per quel breve periodo di tempo dove si sentono liberi o leggeri.
Una volta però che entri in questo circolo simile a un loop non riesci più a uscire.
Come se una voce ti chiamasse per continuare a provare quel dolore che ti rassicura e ti fa sentire sereno anche se per quei pochi secondi lunghi come respiri.
La mattina ti svegli senza ancora nessun problema, poi però inizi a pensare.
-In fondo viviamo in un mondo di delusioni e farfalle dalle ali spezzate e io non ho ancora trovato un’ancora che mi faccia stare bene veramente-
Ormai nel loop ci sono caduta pure io, ma il mio tunnel era più buio rispetto ad altri.
Non riuscivo più a vedere le persone come le vedevo prima, sembrava che tutti mi mentissero, che si fossero messi d’accordo per sorridermi con i loro trentadue denti e dirmi che tutto sarebbe tornato normale.
Tutti si aspettavano una mia reazione, una mia mossa, ma ero così stanca, così stremata.
Nulla sarebbe più tornato normale o almeno come prima perché io non avevo più la mia persona, Luisa, l’unica amica che mi era rimasta.
Mi ero persa, mancava infatti poco che raggiungessi il mio traguardo che, voltandomi non vidi più nessuno gareggiare con me; solo a quel punto capii cosa mi ero persa.
Anche lei non c’era più.
Tutto ciò che prima mi piaceva e faceva stare bene ora si era spento, non vedevo più nulla.
Tentai più volte di mettere fine alle mie sofferenze alle mie voci nella testa, alle mie paranoie.
Raggiunsi il limite pure in questo; quando mi recai sul tetto del mio palazzo, e passo dopo passo raggiunsi il bordo. Giunta a quel punto mi fermai e sentii l’aria ghiacciata passarmi tra i capelli e vicino alle orecchie, come se mi stesse facendo un lavaggio del cervello.
A quel punto capii.
Avevo ancora delle persone care come mia madre o mia sorella che avrebbero potuto soffrire come me se avessi fatto quell’ultimo passo che mi mancava per raggiungere Luisa.
A quel punto tornai nella mia stanza, collegai le mie cuffiette al telefono per ascoltare di nuovo, per la prima volta la mia canzone preferita, che da tempo ormai non riusciva più a esprimermi nulla e infine mi coricai sul letto per pensare.
Avevo passato intere notti di veleno, finché dentro di me non era rimasto niente. L’audacia di chi vuole ricominciare da sé.
Ero sopravvissuta.
Come riesco ora a vedere il bello e il buono ovunque mi trovi e rendere una situazione apparentemente triste una situazione dove io riesca comunque a ridere?
Ho imparato a vivere il momento, non come fosse l’ultimo, come dicono molti quando stanno per fare qualcosa di azzardato, ma come se fosse il migliore.
Questo avevo imparato dopo ciò che avevo passato.
Come dice Tonino Guerra “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”.
Camminavo a testa alta godendomi l’aria bagnata che mi accarezzava il viso; anzi, me lo baciava. Le goccioline di nebbia avevano proprio la freschezza leggera di un bacio, che lascia l’impronta umida sulle guance; quei bei baci che hai voglia che restino a lungo e che non vadano più via (non quelli un po’ bavosi delle vecchie zie, che ti vuoi subito pulire col risvolto della manica, appena ti giri; neppure quelli ispidi dei cugini di papà incontrati ogni anno ai Santi, che lasciano la pelle irritata e l’odore pungente del dopobarba). Mi veniva in mente una frase che avevo sentito qualche giorno prima in tv, “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. Ecco: ridevo; e la nebbiolina sembrava diradarsi intorno a me. Era quasi l’imbrunire e quel pomeriggio autunnale non portava con sé la malinconia che spesso invece si attribuisce alla stagione; o piuttosto ero io ad essere allegra e leggera in quella serata brumosa. Anche la città intorno sembrava fatta di aria, che si addensava nelle ombre che scendevano dagli alberi del viale, che si smarriva nelle vie e negli anfratti delle case. Sentivo la voglia di tornare a casa, al caldo; eppure volevo ancora passeggiare, percepire quel senso di appartenenza ai luoghi, alle strade, ai palazzi, alle luci dei lampioni rese fioche dall’umidità.
Quel giorno non era successo nulla di particolare; semplicemente avevo detto basta. Basta ad una situazione di precarietà, di sfruttamento, di angherie gratuite da parte di una squilibrata; e soprattutto basta al mio senso del dovere soverchiante, che mi aveva fino a quel pomeriggio impedito di reagire in modo energico e realistico ad una situazione assurda.
Mi ero appena licenziata. Avevo detto alla mia capa che il mio orario era concluso; che no, non mi sarei fermata un minuto in più perché dovevo andarmene; e che, anzi, il giorno dopo non sarei proprio tornata in ufficio perché avevo smesso da quel momento di lavorare lì. Basta. (Non avevo detto che dovevo salvaguardare la mia dignità, le mie ambizioni di brillante ricercatrice, i miei desideri di autonomia economica… Avevo ritenuto superfluo cercare di spiegare o di giustificare la mia azione, in ogni caso non sarebbe stata capita). Lei mi aveva guardato incredula, pronta a dare in escandescenze per quella che pensava fosse una provocazione. E invece avevo preso la mia borsa e me ne ero andata via – nessuna scena americana con lo scatolone sotto braccio per riporre foto, dossiers, libri, set da scrivania; – la mia borsa e via. Non avevo sentito la sua voce gridarmi contro invettive o fare isteriche domande.
La sensazione di libertà che provavo mentre camminavo sotto gli alberi di Corso Dante si concretizzava in prospettive reali: sarei stata di nuovo padrona del mio tempo; tempo per leggere, per scrivere, per studiare ancora, tempo da passare in biblioteca a fare ricerche, come facevo prima di finire in quell’ufficio e rimanevo immersa nei volumi così tanto che, quando all’ora di chiusura uscivo, mi pareva che i palazzi fossero fatti di libri e la mia testa si librasse al di sopra del loro profilo, fino su tra le nubi. Avrei potuto cercare un lavoro più remunerativo, o un part-time che mi consentisse di guadagnare qualcosa mentre studiavo; avrei potuto…
Una musica jazz mi colse di sorpresa, perché in quel punto della città non mi aspettavo di udire dei suoni così raffinati. Qualcuno, poco più in là, aveva aperto la porta di un locale nuovo, inaugurato da poco in un angolo aguzzo della Diagonale, l’unica via che tagliava di sbieco la rigorosa geometria razionalista dei quartieri della città costruiti durante il Ventennio. Ne era uscito un motivo ritmato, che avevo sentito tante volte, forse la sigla di una trasmissione della radio, certamente presa da qualche musical o pièce teatrale. Mi piaceva tanto che entrai, e fu come entrare in un quadro di Hopper, in un altro tempo e in altro spazio. Allora capii che quel momento sarebbe rimasto per sempre impresso nella mia memoria. Era una siesta. Una pausa per me. Per progettare il futuro e guardare lontano. Per stare bene e ritrovare me stessa. Me la sarei goduta fino in fondo.
“L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.” E’ così che mi descrivono.
Effettivamente spesso le persone mi danno il merito o la colpa di portare le loro emozioni: c’è amore nell’aria, c’è tensione nell’aria…ed è vero! Io posso vedere tutte le loro emozioni: la tristezza, la felicità e anche il dolore. Così mi diverto a viaggiare nelle città guardando i loro sentimenti cambiare, anche in un secondo. Trovo incredibile quanto gli eventi o le altre persone abbiano effetto su di loro. Come sono fragili gli esseri umani.
Una volta vidi una donna mentre lavorava al computer, avrà avuto più o meno trent’anni, ed era china sopra una scrivania mentre ai due lati si ergevano due pile di fogli. Ero pesante intorno a lei, ma vedevo anche una luce gialla. Era stressata e stanca, ma felice. Guardò l’ora. Erano le sei e la pesantezza sparì improvvisamente. Ora c’erano solo più nuvole leggere illuminate dal sole. Prese la giacca e si fiondò fuori dal palazzo dove lavorava.. deve imparare a fare più attenzione quando attraversa la strada o prima o poi finirà sotto un’auto. La donna entrò in un bar e ne uscì con due bicchieri fumanti in mano, pieni di un liquido marrone scuro, e un sacchetto. Camminava velocemente quando una musica jazz la interruppe.
Io adoro la musica e mi diverte quasi quanto i sentimenti. Gli esseri umani non hanno solo le parole per esprimersi, ma hanno infiniti modi per comunicare. La musica non è precisa quanto le parole, ma è una lingua immediatamente comprensibile da tutti e dappertutto.
Infilando una mano in tasca tirò fuori il telefono e rispose ad una chiamata.
“Pronto, si arrivo subito Teresa.” Chi sarà Teresa? Da quanto ha chiamato le nuvole attorno a lei sono diventate di colore rosa, soffici e dense come lo zucchero filato. Terminata la chiamata continuò a camminare e dopo circa dieci minuti entrò in un altro palazzo, salì le scale e suonò ad un campanello. Un’altra donna aprì la porta e subito disse “Ciao Mimi”. Quindi è così che si chiamava la ragazza che ho seguito.
Ora che lo noto sembravano il sole e la luna. Quella che ha aperto la porta vestiva quasi tutta di nero: portava scarpe nere, maglia nera col disegno di un lupo argentato, e una giacca nera. Oltretutto direi che era stanca della vita. Al contrario Mimi vestiva jeans azzurri e una adorabile giacca rosa pastello. Sprizzava buon umore da tutti i pori e sorrideva tutto il tempo.
“Caffè?” chiese Mimi porgendo a Teresa uno dei bicchieri.
“Grazie” rispose la ragazza. Poi insieme uscirono e si incamminarono a braccetto sullo stesso viale percorso poco prima da Mimi. Era autunno e le foglie rossicce che cadevano mentre loro passavano rendevano la strada più bella, come un dipinto dai colori caldi. Le due ragazze erano indubbiamente il soggetto principale del quadro. Si vedeva nel loro modo di parlarsi, nel loro sguardo e perfino nel tono della voce che cerca qualcosa di speciale fra di loro. Era facile da riconoscere: l’amore. Però si notava anche com’erano insicure di confessarsi. Avevano paura di un possibile rifiuto.
Non potevo lasciarle così: dovevano confessarsi. Ma cosa potevo fare?
La mia prima occasione fu quando si sedettero su una panchina. Ed è lì che mi venne in mente un’idea geniale.
“Guarda cosa ho trovato” disse Teresa piegandosi in avanti e raccogliendo da terra un foglio. Avevo fatto volare apposta ai loro piedi un volantino con l’ingresso omaggio al cinema della città.
“Che fortuna! Beh sarebbe uno spreco non un usarlo, no?” Esclamò convinta Mimi.
Così ci andarono e scoprirono che l’unico film in proiezione in quel momento era molto vecchio e altrettanto romantico. Entrarono, in sala c’era poca gente, scelsero un posto lontano da tutti. Poi il film cominciò e le ragazze si lasciarono trasportare dalla storia d’amore, dalle emozioni finché, complice il buio, trovarono il coraggio di guardarsi negli occhi, avvicinarsi e scambiarsi il loro primo bacio.
Ora, intorno a loro, io ero calda e fresca, tranquilla e frizzante, leggera e intensa, ero tutto e niente.. ero dei colori dell’arcobaleno.
Sono tanti quelli che mi dicono che con una giusta pausa la mia emozione istintiva si può frenare e la si può usare per affrontare meglio le situazioni che mi si presentano. Non si tratta di negare o mettere da parte quello che si prova, ma di ragionarci e di andare al di là dell’interesse immediato e concentrarsi sulla possibilità di vivere meglio gli eventi e di relazionarsi costruttivamente con gli altri, nel privato, nel mondo del lavoro e in tutti quei contatti che ci capitano nell’ambiente sociale. Io, giuro che ci provo ormai da più di 30 anni, ma con scarsi risultati. Ormai mi sto convincendo che oltre ad essere spastico nel corpo, lo sono almeno in egual misura nelle emozioni. E’ pazzesco, mi dico “Giampy tira giù la mano” e lei va su, e mi dico “dai che alla fine Tizia è anche buona”, e Tizia è sempre più arpia e sfiora l’essere odiosa. Ancora una volta nel mio corpo visibilmente spastico c’è un maestro che con pazienza, con costanza, con fiducia, cerca di insegnarmi con molta concretezza che anche nella mia parte invisibile devo fare i conti con stati d’animo ed emozioni non poi così tanto controllabili. Talvolta ci metto più tempo a controllarle, a fuggire da esse, che semplicemente a viverle. E c’è una cosa ancora più rocambolesca, che è talmente folle che al pensarla mi prudono le mani e vorrei picchiarmi: sono quasi certo che ho scelto, chissà per qual motivo, di essere spastico nel corpo e nello “spirito”. La disabilità è una cosa seria, molto seria. Il mio corpo non è una cosa che ho, ma sono io, così come il mio essere spastico nel mio pianeta invisibile, non è un’anomalia che ho, ma è tutto il mio essere. La spasticità è una parte molto importante di me. E’ talmente “fuori da ogni schema” che talvolta ferisce la mia anima. La spasticità è un violento schiaffo. L’intero corpo è solo una macchina da mettere in competizione con l’intero corpo degli altri? Ho perso e peggio ancora, vivo da perdente. Se il corpo è macchina sono sempre in competizione con chi è più magro, più atletico, parla meglio…Ogni persona si trova a gestire il proprio corpo, che significa gestire potenzialità e limiti. Sto provando a vivere questo delicato equilibrio: chiedo aiuto e dono potenzialità. Questo è l’equilibrio che nutre la nostra vita, pensiamo a cosa permette la vita, prendiamo aria, e diamo aria, se non c’è questo scambio, non c’è vita. Come dice un mio carissimo amico: “TUTTI siamo carne e fiato”, tutti siamo visibile e invisibile, tutti forse siamo un po’ spastici. Se tutti insieme siamo “prato”, ognuno di noi è filo d’erba che ha un proprio Angelo che lo incoraggia sussurrandogli: Accogliti! Cresci! Quanto gli altri ci scoraggiano nell’accoglienza di noi esattamente come siamo? Quanto gli altri impediscono la nostra crescita? Ma soprattutto, quanto e in che modo noi incoraggiamo noi per accoglierci e crescere? Ci sentiamo fili d’erba che apparteniamo ad un prato, o abbiamo abbandonato l’intuizione di essere parte del più bel prato che esiste sulla terra?
Camilla è una psicologa di 38 anni che abita e lavora a Trento. È molto richiesta in città, da quando un suo paziente ha ritrovato la serenità grazie alle sue teorie sull’aria. Camilla, che per questo motivo è stata soprannominata “la dottoressa Aria”, è infatti convinta che l’aria che gira intorno a ognuno di noi sia uno spirito guida che ci protegge dagli ostacoli della vita.
Questa convinzione nacque una sera di quindici anni prima quando, attraversando la strada, sopraggiunse un’auto a tutta velocità che lei non vide assolutamente. L’attimo prima dell’impatto si alzò una folata di vento che la sospinse sul marciapiede opposto. Si ritrovò a terra. La gente che aveva assistito alla scena non capì come avesse potuto salvarsi, ma lei sentì come una presenza che le diceva “sono qui vicino a te, non ti abbandono”.
Da quel giorno l’aria è diventata la sua migliore amica, parla con lei, le racconta le sue giornate e a volte prova vergogna se si accorge che la gente pensa che sia matta perché parla da sola.
Nei momenti tristi, quando Camilla ha bisogno di isolarsi dal mondo, l’aria le gira intorno velocemente, ma la sensazione non è spiacevole, anzi, si ritrova con la testa in mezzo alle nuvole, si rilassa e sente come una musica in sottofondo che le permette di ricaricarsi. Quando si risveglia da questa beatitudine, è di nuovo pronta ad affrontare la giornata.
I pazienti seguono la sua teoria e i risultati si vedono. Convinti di avere uno spirito guida, affrontano con il sorriso il lavoro, i problemi, la solitudine e le giornate non sembrano più così pesanti.
Altre persone invece la snobbano, dicono che ruba i soldi con le sue folli teorie.
Camilla ci crede fortemente, ama la sua aria, ed è convinta che se ognuno di noi avesse una propria “aria” che l’accompagna, lo protegge e lo sostiene, la vita sarebbe migliore con più sorrisi e meno sofferenze.
Un giorno i genitori di Anna si recano in studio da Camilla, chiedendo se la figlia potesse iniziare un percorso insieme a lei, perché è sempre arrabbiata con loro, parla poco, non va d’accordo con i compagni, odia la scuola. La ragazza di 16 anni, però, non ne vuole sapere perché ritiene che Camilla sia pazza. Alla fine acconsente per accontentare i genitori, ma ci andrà solo una volta, perché non vuole perdere tempo a sentir parlare di stupidaggini.
Anna bussa alla porta e si siede sulla poltrona. Rimane stupita dalla gentilezza di Camilla e, difficile da ammettere, anche dal suo metodo di lavoro. Al termine della seduta chiede di poter tornare. La “dottoressa Aria” le è piaciuta tanto.
Nel corso delle sedute le torna il sorriso, inizia a uscire con gli amici, in casa sembra un’altra. I genitori sono entusiasti del cambiamento.
Intanto, Camilla e Anna si affezionano sempre di più l’una all’altra.
Quando il percorso finisce, Anna ha paura di perdere quanto conquistato, ma Camilla la rassicura dicendole che potranno incontrarsi in giro per la città, mangiare un gelato insieme e parlare della loro amica “aria”.
E infatti si vedono spesso, sempre con il sorriso, incuranti di cosa la gente possa pensare.
Sono consapevoli che l’aria è indispensabile nelle loro vite, perché dà la vita e il nostro compito è amarla, rispettarla e volerla sempre pulita.
Se l’aria è sana, siamo sani anche noi ed è sana la terra e sono sani i mari e tutti viviamo meglio.
Io personalmente penso che non si debbano giudicare i pensieri e le idee delle persone senza averle testate. Si riesce a capire veramente qualcosa solo quando viene provata. Penso anche che non si debba rinunciare alle proprie idee perché gli altri non le apprezzano. Bisogna portarle avanti fino alla fine.
In questo racconto, Camilla è apprezzata da molte persone, mentre altre la ritengono pazza. Lei ha continuato sempre il suo metodo di lavoro e non si è mai arresa, anche se molte volte veniva giudicata in maniera sbagliata.
Le prime cose che percepisco appena metto piede fuori casa sono l’aria fredda e pungente, che sembra volermi avvolgere anche da sopra il cappotto pesante che sto indossando, e il rimbombo di un tuono, proveniente dal cielo pieno di nuvole nere che si staglia sopra la mia testa. Mi lascio scappare uno sbuffo frustrato, non fraintendetemi, non mi sarei mai aspettato che il posto deprimente in cui ci siamo ritirati dopo la guerra potesse diventare improvvisamente la versione reale del paese dei balocchi ma di certo non mi dispiacerebbe riuscire a vedere la luce del sole e a sentirne il calore almeno una volta al mese.
Scendo le scale del portico e mi avvio per una delle infinite vie della mia città, ci ho messo anni per imparare a distinguerle, sono tutte uguali: tutte fatte di ciottolato, tutte silenziose, tutte oscure, esattamente come il temporale che fra poco inizierà ad inondarle. L’aria mi insegue mentre cammino, passando svogliatamente tra i rami degli alberi per fare cadere in terra le poche foglie rimaste superstiti alla sua ira feroce, sembra quasi che voglia vegliare su di me, facendomi compagnia durante il mio tragitto rattristante. Le persone che incontro per strada sono poche e tutte mi rifilano le stesse occhiate sorprese, come se fosse un evento vedermi uscire fuori dalla mia casetta trasandata, sinceramente non riesco a biasimarli, non sono mai stato un tipo particolarmente socievole, l’unica persona che riusciva a tenermi ancorato alla mia instabile realtà era Mary, è grazie a lei se ora riesco a riconoscere i volti di qualunque abitante mi passi davanti, anche se lentamente stanno iniziando a sbiadire esattamente come il ricordo che ho di lei.
Cambio direzione con la testa tra le nuvole e il suono di musica jazz inizia ad inondarmi le orecchie. Mary amava il jazz, non riesco neanche a ricordare quanto mi abbia fatto spendere per tutti quei vinili, all’inizio la cosa mi rendeva un po’ seccato, ma se ripenso a l’immagine di lei che canticchia e balla in salotto a tempo di musica, non riesco neanche ad immaginare un motivo migliore per cui avrei potuto spendere quei soldi. Raggiungo il musicista che suona a lato della strada e senza neanche pensarci faccio scivolare nella custodia aperta del suo sassofono una banconota da 10 sterline, lo sguardo che lui mi restituisce è caldo, pieno di gratitudine, può sembrare egoista da parte mia dire che l’ho fatto solo perché so che lei avrebbe voluto così.
Mi rimetto in cammino e mano a mano che mi allontano la melodia scompare facendo ritornare quell’eterno silenzio di cui mi sono costantemente nutrito da quando l’ho persa. Forse dovrei cercare di andare avanti, forse dovrei sforzarmi di riuscire a trovare una nuova felicità, ma mi spiegate che senso ha provare quando l’unica vera persona in grado di farmi sentire umano mi è stata sottratta? L’aria fredda, ormai mia fedele compagna, mi segue facendomi svolazzare le vesti mentre con passo insicuro mi dirigo verso la mia destinazione finale: Il cimitero della città. Mentre varco il vecchio cancello arrugginito con un nodo alla gola, le spine della rosa rossa che tengo fra le mani sudate mi graffiano accidentalmente i polpastrelli. Ma adesso non ha importanza, non ora che riesco finalmente a scorgerla. La mia Mary. Il sorriso scolorito che mi restituisce la sua foto mi pugnala al cuore con la potenza di un coltello mentre, con cura, adagio il fiore ai suoi piedi e facendomi forza con voce tremante e guance rigate di lacrime le sussurro: “Buon anniversario, amore mio.”
Di certe notti l’odore si sente giorni prima, odore di bagnato e terra umida, profumo di disperazione e follia.
Alle ore 23.58, con uno slancio da equilibrista, uno scricciolo ruppe il blocco piombo del cielo in un volo perfetto e diagonale. A lei parve di vedere alla sua destra, appena davanti alla luce digitale dell’orologio del negozio all’angolo della strada, una macchia arancione, un fascio di luce velocissima, come l’esplosione di un vulcano lontano.
La sala era forse verde pallido; spoglio, il mobilio sembrava osservarla muto, sempre più pallido, accanto ai rami lunghi degli alberi del giardino. Non era ancora pronta, pensò.
Cuneo si svelava misteriosa dietro il vetro doppio della stanza, impervia e gelida, una ritta signora appoggiata al profilo dei suoi campanili. Respirava con lei, su e giù nel petto, irregolare.
Chiuse gli occhi e riuscì a rivedere l’asfalto cupo del viale, nel silenzio delle domeniche sera, la bicicletta elettrica delle sue ultime gite, la risata argentina di lei ancora giovane alla cena di classe, Converse rosse e gelato alla crema del bar Corso che colava sul suo vestito nuovo. La sua gola si serrò, quasi senza più respiro.
Tutto le si velava davanti disperso in macchie di colore vivissimo, a chiazze di acquerello sempre più larghe: il grigio fumo della Bisalta nel primo mattino, le tende bianche delle bancarelle del mercato, panchine amaranto, scorza di castagne, la fodera a quadri delle sue tasche quando inizia l’inverno, mamma, papà, tutti, tanti che c’erano stati e che non ricordava più, mentre i nomi se ne andavano con masse di numeri e sabbia, sacchi vuoti, squarci di memoria, la vena livida di una mano, bucato sporco, il fiocco di raso di un pacco regalo, fogli protocollo in cartella, tunnel neri da attraversare correndo, resti di sogni e chiavi di alluminio finite nella piega di una borsa di pelle. Franava su di lei tutto il peso della città e del suo cranio, impastato alla consistenza della maschera termoplastica, un unico calco indistinto di terrore e bellezze e lei, leggerissima come non era mai stata, simile a una piuma di piombo precipitava in un posto senza bordi e orrori, un luogo pieno di dio.
L’aria è quella cosa leggera che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi, pensò.
Mostri e farfalle si ammucchiavano nel cumulo di pensieri che la invadeva insieme a terra nera e specchi rotti, scarponi, fango, pattini a rotelle, sangue, una nave, la croce che ondeggia sul cruscotto, basilico, rossetti scaduti, una busta bianca, il noce grande della casa della nonna, sandali, febbre, autostrade, tutto che diminuisce e precipita, vele in mare, caffè, un bacio, pieghe di deserto, il bucato che si gonfia al sole, rotoli di chiacchiere, nostalgia.
Finita in un posto ignoto, distesa nella sua camicia da notte bianca, quella notte Teresa Maffei, anni 36, allungò il poco che restava delle sue braccia sulle lenzuola bianche dell’Asl Cn1, aggrappata alla vita come a un albero maestro nel pieno di una tempesta. Il cervello le pulsava, in un misto di delirio ed esaltazione in cui non riconosceva più nulla, nemmeno la pallida ombra di sé.
Da altezze siderali la sua mente scrutò lentissima il rosso dei tetti, nella geometria precisa delle strade del centro, esattamente sopra questa sala, nell’aria.
Di noi seppe in quell’ora ogni segreto, all’improvviso. Poi volò via, nuotando altrove.
Alle 00.01, il ramo secco di un albero ondeggiò al peso impercettibile di uno scricciolo. Distesa nel gelo, il 16 novembre, Cuneo vibrava come un’ombra nella notte.
Lei la guardò, chiuse gli occhi. Sorrise.
Tutto iniziò dall’incontro nell’ottobre del 2013, tra Sara e Francesco, il sassofonista di un locale jazz di Torino. Qui la ragazza ci capitò per caso, per divertirsi un po’ con le amiche, prima degli esami. Sara era determinata e la musica la faceva emozionare. Da persona intraprendente non ebbe timore a trasferirsi a Torino per l’università, nonostante fosse lontano dalla sua casa in Svizzera. Francesco invece dal carattere rockettaro e dalla mentalità libera, era tutto tranne che serio e determinato. Sara, in quella notte di ottobre, si innamorò di lui e del suo spirito, così dal loro grande amore, nacque Leo, un bambino curioso e che sin da piccolo lottava per le sue idee. Per esempio, prima di andare all’asilo, litigava con il papà per decidere lui la maglietta e a tutti i costi voleva indossare quella più adatta al suo umore. Nel 2021 Leo era emozionantissimo perché iniziava le elementari e questa era la prova che era diventato proprio grande e autonomo. Una mattina a scuola parlarono di uno strano argomento: l’inquinamento. Per Leo era una parola troppo lunga da capire e così, quando arrivò a casa, chiese spiegazioni alla sua mamma. Sara, un po’ spiazzata dalla domanda, decise di dirgli la totale verità: il Piemonte, dove abitava, era la regione con il più alto reddito d’Italia, perché superava del 40% la media nazionale. Così Leo un po’ confuso chiese cos’era il reddito e la mamma rispose che significava: una maggiore quantità di rifiuti, domestici e industriali e tutto l’ossigeno ucciso dall’uomo veniva ricompensato dai 596 mila ettari di boschi.
Leo ingenuamente rispose: “Che schifo, non voglio più vivere qui!” Sara sorrise e gli diede un abbraccio, dicendo che era l’ora dei compiti. Così Leo, da bravo scolaro, andò subito in camera sua e mentre disegnava, alzò lo sguardo, guardò fuori e disse: “Magari sulle nuvole non esiste l’inquinamento, potrei andare a vivere lì.” Così, convinto della sua scelta prese la scala nel garage e la mise al centro del cortile. Si arrampicò e cercò di saltare sulle nuvole, ma non c’era niente da fare, non riusciva a salirci su. Tristissimo decise di non arrendersi, provò con la scala sulla terrazza all’ultimo piano, ma proprio non riusciva…Ormai scoraggiato, si sdraiò, socchiude gli occhi e una voce lo svegliò, era una strana persona, che sulla testa aveva un cerchio oro e attaccate alla schiena delle ali. Tese la mano a Leo e in un battito di ciglia si trovò su una nuvola, era bellissimo: tutto bianco, pulito e sicuramente senza così tanto inquinamento! Dopo qualche ora, la mancanza di mamma e papà si faceva sentire, ma, testardo com’era, non scese, pensando di salvare il mondo così. All’improvviso si sentì un fortissimo rumore, era l’aria che stava spazzando via le nuvole sopra Torino. Leo era frastornato, aveva paura, poi subito dopo si sentì sprofondare, cadere, volare giù e…Boom! Leo si risvegliò, si era addormentato sul terrazzo, cullato durante il sonno dalla leggera arietta che soffiava su Torino. Quel sogno gli fece capire che gli ostacoli non si aggirano, si combattono e spesso si sconfiggono! Era proprio un bambino sveglio, capace di arrivare oltre! Perdonatemi non mi sono ancora presentata, sono Lola, la sorella di uno dei più famosi e talentuosi attivisti del mondo…Sostanzialmente sono la sorella di Leo, quel bimbo che non aggirò l’ostacolo.
Sono seduta su una di quelle sedie verdi che caratterizzano “le Jardin des Tuileries”, a Parigi. Le pagine del mio romanzo preferito mi solleticano le dita, quando giro le pagine. Una ventata d’aria fresca mi sventola i capelli, lasciandomi un breve brivido sul collo. Di fronte a me ho l’obelisco, a sinistra noto la maestosa Tour Eiffel e il Musée d’Orsay, e dietro so di avere il Louvre. Continuo a passare riga per riga, sono come in una bolla, solo la pubblicità su YouTube mi risveglia. Prendo il telefono per andare avanti, sono sicura che dopo ci sarà la mia canzone preferita. Ma quando sento la musica della pubblicità, non resisto a sentirla tutta, pezzo per pezzo. Fa parte di un musical famosissimo, che ho rivisto fino a farmi venire la nausea. “Tutti insieme appassionatamente”. Quando finisce, parte la mia canzone preferita, ma io sono ancora rapita dallo scorcio di quella musica. Andando avanti a leggere, continuo a pensare a quella canzone. Nel libro c’è una citazione, che mi fa volare sulle nuvole. Nella mia mente si forma un’immagine, Parigi è sotto di me, io ho gli occhi coperti da nuvole e sorrido. La frase è: “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. Mi poso il libro sulle ginocchia e guardo l’orizzonte, sistemandomi sul viso gli occhiali da sole. La folla che c’è nei giardini, specialmente d’estate, non è indifferente. Ci sono molte persone, di diversi paesi e che parlano diverse lingue. Non capisco cosa dicono tutti, ma con alcuni riesco anche a intraprendere un discorso. Sono una persona che si butta, non si imbarazza se non conosce una persona. Non so se sia un bene o un male.
Mi capita spesso di ricevere domande, a volte molto complicate. Non sono del posto, ma studio qui a Parigi da tre anni e oramai parlo fluentemente il francese. Vengo ogni martedì e giovedì ai giardini, sono il mio piccolo angolo di paradiso. Dopo qualche mese che ero qui, ho voluto iniziare a lavorare, ottenendo un posto da cameriera in un bar. Abito in un appartamento con altre due ragazze, che però preferiscono andare al centro benessere piuttosto che leggere un libro come me.
Ho deciso di intraprendere gli studi universitari di storia antica e contemporanea, che erano la mia passione fin da bambina. Mi trovo bene nella mia classe, confesso che all’inizio ho faticato un po’, siccome non sapevo bene le parole tecniche storiche francesi. La mia migliore amica, studia all’Opéra di Parigi, e ne sono felice, perché almeno ho un’amica d’infanzia che mi è sempre vicina. In più, e non è poco, mi fa sempre avere i biglietti ridotti per i suoi spettacoli. Lei è una delle ballerine di fila, ma sono sicura che tra un po’ la faranno diventare prima ballerina. Il suo ragazzo, un tipico francese per bene, studia medicina nella mia stessa università. La mia migliore amica, la ballerina, si chiama Emma. Emma è mia coinquilina da due anni, perché prima stava in collegio, e non era sicura che io restassi qui. L’altra mia coinquilina invece, abita insieme a noi da solo un anno, ma abbiamo una sintonia a dir poco magnifica. Passiamo molto tempo insieme, siamo come sorelle. La musica continua ad andare nei miei auricolari componendo una musica perfetta per un romanzo rosa. Leggo, frenetica, le ultime pagine del libro. Mi fermo e rileggo l’epilogo molte volte. Non mi voglio separare da quel testo, mi è così caro. La mia playlist ricomincia e capisco che è il momento di andare. Devo andare a fare il mio turno al bar, prendo quindi la metro, cambiando totalmente genere musicale. Il libro fa sentire il suo peso nella mia borsa di tela. Così come la storia del libro è giunta al termine, anche la mia lo è. Alla prossima!
Si fa presto a dire aria. Aria fresca, aria pura, ora d’aria, devo prendere aria, una boccata d’aria… Siete fortunati, voi, che all’aria neanche pensate o che associate il termine a qualcosa di piacevole, positivo, leggero. Per me aria è sinonimo di oppressione, angoscia, senso di morte. Lo so, non si può dire, è scorretto e offensivo nei confronti di chi ha sofferto. Ma io ho pregato perché l’esperienza nuova e per molti traumatica del lockdown si prolungasse indefinitamente. Indipendentemente dalla diffusione del virus o da qualunque altra situazione. L’importante era stare a casa e constatare, finalmente, che non volere uscire coincideva col non poter uscire. E rinchiuso tra le mie quattro mura, mentre rimbalzavo come una pallina di flipper tra le poche stanze, poter finalmente pensare che anche tutti gli altri vivevano come me. E che nessuno, per legge, poteva costringermi a uscire. Ma è durato troppo poco. Qualche mese appena. poi la normalità ha ripreso ad affacciarsi minacciosa nelle nostre vite e con essa l’esigenza di uscire di casa. All’aria aperta. Nell’orrore. Gli spazi aperti mi angosciano, le nuvole, che nelle fantasie dei bambini e degli innamorati assumono fisionomie buffe e divertenti, su di me incombono come cappe minacciose destinate a soffocarmi. Il vento che accarezza i vestiti primaverili e invita alla leggerezza e al buonumore, su di me ha l’effetto di un refolo assassino che promette timori e tremori. Però non si può più evitare. L’emergenza è terminata, prima o poi dovrò di nuovo uscire. Affrontare l’aria. Motivi per espormi alla minaccia degli spazi aperti, in realtà, non ne ho molti. Per andare al lavoro, passo dal mio appartamento al garage, all’auto, al parcheggio interno dell’azienda, al mio ufficio. Spesso non mi accorgo nemmeno del tempo meteorologico. Ed è bellissimo. Relazioni sentimentali, com’è facilmente intuibile, neanche parlarne: ho avuto un paio di fidanzate ma, dopo i primi tempi in cui l’intimità è apprezzata e anche ricercata, le ragazze manifestano l’insana propensione a uscire: fare un passeggiata, andare al mare, in montagna. Amici nel senso stretto del termine non si può dire che ne abbia. Ho qualche collega con cui scambio messaggi, ogni tanto. Un commento su una partita di calcio o su una serie televisiva. La sopravvivenza mi è garantita da quel meraviglioso servizio fornito dai supermercati che portano la spesa a domicilio. Ma le pressioni per abbandonare il mio appartamento sono sempre in agguato. Il dottore mi ha detto che sono carente di vitamina D e devo espormi più spesso al sole. Mia madre insiste perché, terminata l’emergenza sanitaria, vada più frequentemente a trovarla. Alcuni prodotti di cui ho bisogno, è necessario che li visioni di persona, non posso farmeli spedire per corrispondenza. La mia vita è una litania completamente priva di senso. Un annaspare nell’assurdo. Come quei brani jazz che ruotano per minuti interminabili attorno all’unico riff giocando esclusivamente su varianti dettate dall’abilità d’improvvisazione del musicista. Fossi una partita a scacchi, sarei l’arrocco. Il fine della mia vita è cercare di non uscire di casa fino alla morte. Non una grande prospettiva.
Questo, almeno, fino a ieri. Ieri il mio gatto passeggiava come suo solito sul davanzale del balcone. Un improvviso tuono lo ha spaventato e ha perso l’equilibrio. E’ caduto a terra ma non si è fatto niente (abito al secondo piano). Tuttavia, lo spavento lo ha fatto fuggire terrorizzato in un ambiente per lui totalmente nuovo. Soeren è l’unico essere vivente con cui mi rapporti quotidianamente. Non mi vergogno a dire che sia l’essere vivente cui voglia più bene. Sono immediatamente sceso a cercarlo. Un secondo tuono lo aveva fatto ulteriormente allontanare. Correndo in ciabatte e agitando come un folle una scatola di croccantini, l’ho trovato nascosto sotto un’auto parcheggiata. L’ho preso in braccio e solo allora ho realizzato che ero fuori. All’aperto. All’aria. L’ansia ha cominciato a crescere ma era comunque inferiore a un senso infantile di euforia e libertà. Sono uscito di casa e non sono morto. Credo che potrei persino ripetere l’esperienza. Magari domani Soeren fuggirà di nuovo.
E’ una mattina di dicembre, fuori l’aria è gelida. Simone è ancora nel letto. Non ha dormito niente questa notte: continuava a sentire il vento che sbatteva contro i muri della casa e aveva perfino un po’ di paura. Temeva che li facesse crollare, i muri. Si copriva le orecchie con le coperte per non sentire quel rumore fastidioso. “Poverini quei cagnolini che devono sopportare tutto quel freddo”, pensava il piccolo Simone durante la notte. Suona la sveglia, è ora di andare a scuola. Qualche volta si chiede perché deve andarci e non capisce quando la nonna gli dice che se stesse a casa si annoierebbe. “A volte gli adulti sono proprio strani”, pensa tra sé e sé. “Voglio bene alla nonna, ma quando dice così mi fa davvero arrabbiare! Non é assolutamente vero che a casa mi annoio. Potrei fare un sacco di cose divertenti, come giocare a fare l’astronauta! E poi… Tantissime altre cose… Per esempio… sì, giocare a fare l’astronauta! Gli astronauti non vanno a scuola, stanno tutto il tempo nello spazio a roteare su loro stessi. Che fortunati…”. Prima di uscire guarda fuori dalla finestra. Il vento c’è ancora. Gli alberi sono piegati verso destra e Simone si chiede se a fine giornata non avranno il torcicollo. Dà la mano alla nonna ed escono insieme. L’aria è freddissima, gli taglia la pelle. Entra negli occhi, nel naso, nelle orecchie e arriva a congelargli anche gli angoli più nascosti del corpo, perfino quei piccoli spazi tra un organo e l’altro. Simone pensa che se dovesse entrare ancora un po’ d’aria si gonfierebbe come un palloncino e comincerebbe a volare in alto, fino a toccare le nuvole, fino a raggiungere lo spazio. “Wow, sarebbe così bello…”. Quando fa freddo il paese sembra spento. Nessuno saluta nessuno. Tutti si muovono velocemente, con fretta. Qualche volta gli sembra di vivere in una città in bianco e nero, pallida. Per questo, mentre va a scuola Simone si guarda attorno e prova ad immaginare un mondo alternativo, più colorato, più caldo. Attraverso i suoi occhi i pali della luce diventano degli altissimi sassofonisti che ondeggiano snodati a ritmo di musica; le panchine dei pianoforti i cui tasti si abbassano da soli e quei grossissimi vasi della signora Luisa saltano giù dal balcone e si trasformano in meravigliose batterie che rimbalzano lungo le strade. Tutti insieme creano un’orchestra che, con la sua dolce melodia, fa ballare i passanti felici e li accompagna durante il loro percorso. Simone si gode questa musica per un po’ e tutto gli pare di nuovo vivo. Ma poi, una forte folata di vento lo colpisce e tutto ritorna come era prima. La città è di nuovo priva di luce, priva di anima. Gli viene in mente una frase che una volta aveva pronunciato la maestra Anna durante la lezione di poesia: “L’aria è quella cosa leggera che…” Non ricorda come continua. Però dopo quel forte schiaffo non riesce proprio a capire come la maestra possa credere che l’aria sia leggera. Comincia a pensare alla maestra. E’ brava e gentile, ma tremendamente noiosa. Durante le sue lezioni Simone guarda sempre fuori dalla finestra e si immagina di poter volare via e raggiungere lo spazio. Si ricorda di aver visto un giorno una strana signora. Era una donna altissima, talmente alta che la sua testa andava oltre le nuvole. Simone vorrebbe conoscerla quella strana signora. Vorrebbe chiederle di prenderlo in braccio e di portarlo lassù, dove avrebbe sempre voluto essere, dove non c’è quell’aria maledetta che ha spazzato via la sua immaginazione, dove può vivere immerso nei suoi pensieri.
Lei era solita guardare il cielo. Qualcuno diceva che era una cosa bellissima, unica, rara. Altri erano indispettiti dal fatto che fosse poco concreta, che non guardasse dove metteva i piedi quando camminava nella vita. Qualcuno scambiava quel suo entusiasmarsi per le vicende della vita quotidiana per dabbenaggine. Qualcuno diceva che era semplicemente fantastico quel suo modo di vivere la vita. La vita di tutti i giorni, da quando usciva di casa a quando entrava al lavoro a quando andava a dormire a quando i rumori della notte la tenevano sveglia, sembrava andare in una direzione in cui lei non riusciva proprio ad andare. Lei guardava il cielo e la vita le urlava di non staccare lo sguardo dai propri piedi.
Lui era solito guardare alla terra sui cui poggiava i piedi. Era stato educato così. Cresciuto con un occhio alla terra ed uno al piede. Di tanto in tanto alzava la testa verso l’alto, per osservare il cielo tra le fronte degli alberi. Qualcuno diceva che era fantastico il sapere sempre dove dover poggiare un piedi, quando fare un passo, quando era il momento di saltare o di attendere. Qualcuno invece gli diceva che la vita non era solo la terra dove camminava, ma anche lo sguardo lanciato lontano sul cammino ancora da sognare. La vita di ogni giorno sembrava affine al suo modo di essere, ed infatti era annoverato tra il numero di quelli giusti.
Lei era solita sognare molto. Raccontava di quello che sognava. Raccontava di quello che le faceva paura. Raccontava delle emozioni che la pervadevano. Raccontava cose già raccontate per poi riprendere da capo. Raccontava i desideri che aveva nel cuore. Raccontava di tutto. Raccontava molto. Sognava molto.
Lui era solito pensare. Pensava per programmare. Organizzava in silenzio gli aspetti della vita che lo interessavano. Silenziosamente decideva per raggiungere i suoi scopi. Era silenzioso. Parlava poco. Sembrava scontroso ed a volte poteva mettere a disagio.
Il cavaliere errante quel giorno salì in cima alla grande collina. Si trattava di una collina poco distante dalla città. Sulla cima sorgeva un grande albero. Era ancora buio. Il sole doveva ancora sorgere. Il profilo dei monti che circondavano la collina si stava colorando di una luce gialla. L’alba era vicina. Quando arrivò in cima, nascosto nella sua armatura metallica, il cavaliere scoprì di non essere solo.
Guardò bene l’ombra sotto il grande albero e vide una figura minuta con lo sguardo rivolto al cielo. Si avvicinò e senza dire nulla si sedette accanto alla figura minuta. Era una fata dei prati, con ali ed orecchie puntute.
“Sai che l’aria sposta le nuvole?”
A lui sembrò un’affermazione banale, ma non esternò questo suo pensiero. Era infatti solito pensare prima di parlare.
Ci fù poi un bagliore. Il primo raggio di sole del mattino comparve da dietro una fessura della catena montuosa. Colorò un cono di luce che illuminò l’aria davanti a loro. Fu come se l’aria trasparente e scontata di tutti i giorni, in quel preciso istante e con la forza di un piccolo raggio di sole prendesse consistenza. Era come se solo in quell’istante l’aria fosse visibile, concreta, vera.
“Sai che non avevo mai visto l’aria così?”
A lei sembro strana quell’affermazione. Aveva visto l’aria mille e più volte, nella casa polverosa della nonna, laggiù in città. L’aveva vista quando esplorava i ruderi dei vecchi edifici diroccati che la costeggiavano. L’aveva vista quando i raggi del sole s’infilavano attraverso delle piccole fessure o spaccature dei muri ed illuminavano il pulviscolo che galleggiava tutt’intorno. Ma non disse nulla.
Lei prese la mano di lui. Lui strinse la mano di lei.
Lei indicò il cielo. Lui l’aiutò ad alzarsi ed indicando il sentiero che scendeva la collina la invitò a camminare insieme.
Lei indicò una nuvola sospinta dal vento che mutava continuamente di forma. Lui sorrise.
Lei s’inciampò perché non aveva visto una pietra che spuntava dal terreno. Lui la sorresse e non le permise di cadere.
Arrivarono alle porte della città. Erano ancora mano nella mano.
Varcarono la porta che si apriva nelle mura che cingevano le case.
S’incamminarono nella via principale.
Risero quando un raggio di sole li sorprese illuminando l’aria proprio davanti a loro.
Erano ancora mano nella mano.
In una piovosa e umida giornata di inizio ottobre, Londra è più bella di tutti gli altri giorni.
La sveglia è stata molto piacevole: arriva dal piano di sotto e riempie tutta la mia stanza, la musica preferita dalla mia famiglia ospitante, il jazz, e in sottofondo lo scroscio della pioggia sulla finestra della mia camera.
All’interno della casa, c’è un’aria di felicità fin dalla prima mattina e, anche se non mi piace svegliarmi presto, sono euforica all’idea di passare un’altra giornata nella mia città preferita.
Per un’italiana a Londra, all’inizio è difficile vivere con il clima e con gli inglesi, persone molto diverse dagli italiani. Sono riuscita ad ambientarmi abbastanza in fretta: la mia famiglia è bravissima, e questa più di tutte mi sta aiutando a migliorare il mio inglese. L’amica italiana con cui vivo e passo le mie giornate è un punto di appoggio, non solo per l’italiano ma anche per vivere l’esperienza in due e per sentirmi meno sola. Allo stesso tempo, Londra mi sta offrendo molte opportunità. Questa grande città metropolitana è avvolta in una nuvola di emozioni e da fuori è vista come una città triste e malinconica, chi vive dentro questa nuvola sa benissimo che non è così. L’aria è così leggera in questa città che diventa più chiara ogni giorno che passo qui.
Ogni giorno è un’avventura.
Torno alla realtà quando vengo inondata da un odore squisito di pancake e uova, che buono!
Mi preparo in un millesimo di secondo e corro a mangiare colazione con la mia amica italiana e con la nostra generosa famiglia ospitante, lavo i denti e sono pronta a lasciare la casa. Vivo nel famoso quartiere di Notting Hill. Questa mattina il quartiere è affollato di persone, è il giorno del mercato. Adoro le mattine del mercato. C’è sempre un’aria e una musica allegra, misto al suono delle voci delle persone. Faccio un salto in biblioteca, prima di andare a prendere il pullman, e come sempre trovo quel ragazzo.
Quel ragazzo che vedo tutte le mattine, ma mi manca il coraggio per andare a parlare con lui. Giuro che ci proverò. L’aria all’interno della biblioteca è pesante, dato il mio imbarazzo. Incrocio un paio di volte i suoi brillanti occhi azzurri, che in quel momento di disagio, rendono l’aria meno soffocante. Prima di perdere il bus, esco dal negozio. Fortunatamente arrivo insieme al pullman, così non mi tocca aspettare quello dopo. Il tragitto dura più del solito, anche se mi piace tantissimo usare il bus come mezzo di trasporto perché non è mai stracolmo di studenti e lavoratori e poi i pullman sono a due piani! Ascolto la musica fino alla mia fermata. Percorro Belgrave Square, con l’odore delle foglie bagnate, il rumore delle mie scarpe a contatto dell’asfalto bagnato e con la testa tra le nuvole, ferma al mio incontro in biblioteca con quel ragazzo. Raggiungo la mia scuola e appena entro avverto un’aria tesa. Mi salva una mia compagna di classe e insieme raggiungiamo la nostra aula. Le lezioni sono più lunghe di quelle italiane, non danno compiti a casa perché la maggior parte delle attività si concludono sempre in classe e bisogna seguire le lezioni anche nel pomeriggio. A scuola sono tutti molto gentili con me e ho già fatto amicizia.
Arriva l’ora di pranzo in un batter d’occhio e ci annunciano che questo pomeriggio non avremo altre lezioni.
Decidiamo così, la mia amica ed io di prendere il pullman che ci porta fino alla via dello shopping. Pranziamo nel nostro locale preferito. A un certo punto viene messa la canzone che anima tutte le nostre mattine, la canzone preferita della nostra famiglia. All’improvviso arriva una folata di aria festosa e tutti iniziano a ballare, noi comprese. Dopo balli e canti, iniziamo a girare in lungo e in largo per la città e per tutti i negozi. Anche se è solo ottobre, sembra che sia già inverno nei negozi. Anche se è appena iniziata la stagione autunnale non vedo l’ora di passare il Natale qui.
Torniamo a casa e appena entro in camera mia, trovo una misteriosa lettera sulla mia scrivania. Ha un’aria un po’ sospetta dato che non c’è il mittente. Apro la lettera e rimango senza parole…Ma questa è un’altra storia.
Mi chiamo Ines e ho 15 anni, conduco una vita normale anche se non è come vorrei: mi piacerebbe andare a scuola come le ragazze di altri villaggi più ricchi rispetto al mio, ma a me purtroppo tocca lavorare per portare alcune monetine a casa.
Tra qualche mese probabilmente i miei genitori mi prometteranno in sposa a quell’uomo di nome Adam, nonché il capo del luogo in cui lavoro io, ossia nella sartoria; è perfido, mi tira uno schiaffo quando sbaglio a cucire e spesso come punizione non mi dà nemmeno la mancia, che inoltre è pure misera. Ha 38 anni e lui vuole sposarsi e avere figli, cosa che io invece non voglio assolutamente con un ‘uomo’ del genere, che ritiene che la donna sia solo un oggetto; nonostante ciò i miei, anche se non è questo ciò che vogliono per la loro unica figlia femmina, non hanno altra scelta, non abbiamo soldi a sufficienza e questo è l’unico modo per poter mantenere me stessa e i miei genitori. In ogni caso, ho accennato il fatto di essere l’unica figlia femmina, anche se ho un fratello più grande di 22 anni, che però non vedo più da anni: il capo di una fabbrica, famosa in un villaggio distante circa 5 ore, gli aveva promesso un lavoro in cui sarebbe stato pagato bene, quindi mio fratello Omar ci andò, da quel momento, circa 7 anni fa non abbiamo più avuto notizie di lui. Ho pianto per tantissimi giorni di fila, anche in questo ultimo periodo quando ci penso, mi manca ogni giorno che passa e mi immagino sempre come sia ora, di sicuro è un bellissimo ragazzo, forte e muscoloso, con i suoi capelli ancora scuri come il carbone e gli occhi verde smeraldo.
Comunque, come ogni altro giorno, oggi mi tocca di nuovo lavorare fino alle 6 di sera, però prima di tornare a casa volevo andare al mercato vicino al mio lavoro per comprare un regalo alla mamma, che oggi compie 40 anni. Dunque, mi sono alzata e sono andata subito al lavoro che dista da casa mia 15 minuti a piedi, e una volta conclusa questa giornata lavorativa, in cui Adam mi ha sgridata dicendomi che devo ascoltarlo perché quando sarò sua moglie non accetterà certi comportamenti, mi sono diretta verso il mercato, in cui ho visto un ragazzo che vendeva dei tappeti colorati. Mi sono diretta verso di lui e quando si è avvicinato il suo profumo mi è sembrato molto familiare, ma non ci ho dato tanta importanza, anche perché ero lì per un altro motivo; un tappeto che mi piaceva tanto era color verde e fucsia, con dei fiorellini bianchi al centro, ho chiesto il costo ma era troppo alto per me e iniziarono a scendere delle lacrime lungo le mie guance, però il ragazzo disse che me lo avrebbe regalato solo se lo avessi aiutato a trovare la sua famiglia che non vedeva da anni, dal momento che il negozio era di sua proprietà.
Non ci ho pensato due volte e gli ho risposto subito di sì, quindi ha chiuso il suo negozio per un po’ di giorni e mi ha accompagnata a casa, aiutandomi a tenere il tappeto pesante. Mentre parlavamo e camminavamo non riuscivo più a tenerlo e l’ho posato per terra, fin quando esso iniziò a illuminare e a volare intorno a noi due: il ragazzo è salito e mi ha detto di salire con lui, poi abbiamo iniziato a essere trasportati dal vento e ridevamo. L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi, ero felice e lo sapevo, non mi divertivo così tanto da molto tempo. Una volta finito di fare il giro per il villaggio, il tappeto si fermò da solo davanti a casa mia e chiesi al ragazzo se voleva entrare a bere qualcosa per farlo riposare; intanto che preparavo una tisana che la mamma faceva sempre quando io e Omar eravamo piccoli, la mamma intanto era arrivata e incominciò a piangere dalla gioia vedendo quel meraviglioso tappeto e mi ha subito abbracciata, io le ho detto che era merito del ragazzo e lei lo guardò e abbracciò pure lui. Parlavamo tutti insieme fin quando la mamma iniziò a preparare cena e quando ci ha chiamati a tavola, chiamò il ragazzo ‘Omar’ perché diceva che i suoi occhi gli ricordavano proprio lui. Ci disse che si chiamava realmente Omar, e il papà che era appena tornato a casa, sentendo queste parole, corse ad abbracciarlo forte: finalmente era tornato a casa.
Mi ha salvato la vita, potevo non sposare Adam grazie alla ricchezza di Omar, ma soprattutto sono ritornata a vivere.
Non ho mai dato molta importanza all’aria , fino a quando non mi sono ammalata .
Da quel giorno ho capito che a volte non tutto è come vorremmo e che siamo solo di passaggio su questa terra .
Non vale la pena sprecare il nostro tempo facendoci divorare dal senso di colpa , dai rimpianti o dai rimorsi , è nostro dovere sfruttare la vita al massimo .
Fin da bambina ho avuto la fortuna di ricevere tutte le attenzioni e l’amore di cui avevo bisogno .
Sono nata e cresciuta a Cold Spring , un piccolo paese vicino a New York , uno di quei paesi caratterizzati dal perenne maltempo.
Sono sempre stata circondata da persone con cui poter uscire il sabato sera , andare ai concerti e fare qualsiasi tipo di esperienza .
Ho sempre cercato di vivere la mia vita nel modo più spensierato possibile , non soffermandomi mai a riflettere su quanto la vita potesse essere imprevedibile e come qualsiasi cosa possa stravolgere completamente i tuoi piani .
Non ho mai dato importanza a ciò che era davvero importante, ho sempre preso tutto con superficialità e spensieratezza .
Ero una ragazza ribelle che andava contro il volere dei genitori e che si nascondeva nei vicoli del suo paese per accendersi una sigaretta .
Mi piaceva osservare il fumo uscire dalla mia bocca, sentire il calore che provocava ogni tiro che facevo e assaporare il gusto del tabacco quando inspiravo .
Ho passato alcuni anni della mia vita a tenere tra le labbra la cosa che diminuisce il numero dei giorni in cui possiamo esalare il nostro ultimo respiro .
Un tempo non davo importanza alla quantità d’aria che ogni sigaretta sottraeva ai miei polmoni , non ho mai provato a sforzarmi di capire quanto quest’ultima fosse importante ,ma soprattutto essenziale per ognuno di noi .
All’aria dobbiamo la nostra esistenza , le dobbiamo la possibilità di vivere la vita .
Adesso ho 19 anni e credetemi se vi dico che non avrei mai immaginato di ritrovarmi in un letto d’ospedale , malata di cancro ai polmoni , la malattia che non mi permette più di respirare come vorrei.
Oggi sono due anni che continua a farsi strada dentro di me facendomi spegnere poco a poco , ed è proprio oggi che voglio far capire a tutti coloro che leggeranno ciò che ho scritto quanto è importante non sprecare nemmeno un singolo momento del tempo che ci resta .
Tre anni fa in questo momento ero a ballare e a bere in compagnia dei miei amici tenendo una sigaretta tra le dita . Ora sono qui , senza più alcuna certezza , a contare i giorni che mi restano e a chiedermi se vedrò ancora la luce del sole che mi scalda il viso strappandomi un sorriso malinconico che fa affiorare i ricordi .
La mia unica certezza è quella di non avere rimpianti , forse non avrò l’opportunità di sposarmi , trovare un lavoro , vedere i miei figli crescere , ma per quel poco che ho vissuto sono felice di dire che ho sfruttato la mia vita al massimo.
Non dovete mai soffermarvi su ciò che vedono i vostri occhi, fate parlare il cuore.
Innamoratevi ,tingetevi i capelli ,fatevi spezzare il cuore , divertitevi, fate follie. Il tempo non torna indietro .
Non ha senso rimuginare sul passato quando avete davanti un futuro luminoso e pieno di sorprese .
Apprezzate tutto ciò che la vita ha da offrirvi e coglietene ogni sua sfumatura.
Vivete con orgoglio , non accontentatevi , inseguite i vostri sogni .
Non potete sapere come andranno le cose e se c’è una cosa che non auguro a nessuno , è quella di guardarsi un giorno allo specchio e avere la consapevolezza di non aver vissuto a pieno .
Vivete la vita , vivetela con ogni singola parte di voi perchè potrebbe sfuggirvi dalle dita in qualsiasi momento .
Spero che ognuno di voi possa capire quanto è importante vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo.
Quand’ero bambino disegnavo aquiloni Khaled che non volavano mai. Si trattava di sogni infranti e promesse non mantenute che oggi raccolgo dall’oblio. Mio padre aveva un cagnolino che gli somigliava tanto. Solo ora, a distanza di anni, sapremo il suo nome: Aria. Non è uno scherzo, è uno di quei trovatelli che vanno a zonzo tutto il dì in cerca di denaro da sprecare. In canile non si sta mica tanto bene; per questo Aria lo vedi ancora, su qualche nuvola, in cerca di una famiglia. Mi hanno detto che a volte Tommaso lo va a trovare per non sentirsi solo, così può tornare dalla sua bella per sopportare meglio di essere innamorato di un’altra (che però non se lo fila per niente). Non è raro per certi sogni, il ripetersi. Ci vogliono anni, e ti ritrovi a disegnare aquiloni Khaled immaginando solamente di poter volare. Un giorno te ne accorgerai mentre guardi un gabbiano, oppure uno stormo di rondini. Che già ti manca.
Fu la forma della città la prima a colpirlo: mentre il treno fischiava imboccando le arcate del Ponte, la vide a intermittenza, la città lunga, distesa sull’altipiano circondato dallo scudo delle Alpi Marittime. Ebbe un’impressione di freddo, forse il colore bianco a fare da sfondo alla visione, una montagna alta e larga come un baluardo, una cortina tesa tra due sporgenze. Sapeva che il nome di quella città, Cuneo, doveva avere a che fare con la sua forma, e si chiese se fosse possibile saperlo vedendola dall’alto; pensò che, con un nome maschile, forse sarebbe stato un luogo severo, rigido, poco accogliente.
Sceso dal treno, fu colto da un’aria pungente coerente con la sua prima impressione. Eppure non si sentì respinto, ma anzi fu subito attratto dal profumo di caffè e brioches dolci che proveniva da un bar della piazza circolare su cui uscì, e vi entrò speranzoso di riscaldarsi. Il gestore lo salutò gentilmente e, dopo aver preso la sua ordinazione, continuò a parlare con un altro cliente in un dialetto largo e morbido, che a lui ricordava il francese. Cercava di capire le parole, sorrideva mentre sorseggiava il suo cappuccino, e l’aria intorno alla sua testa diventava più chiara, più leggera. Riprese fiducia in sé stesso e nella situazione che avrebbe affrontato: era arrivato lì per sua libera scelta e l’incontro sarebbe andato bene. Aveva ancora tempo e decise di passeggiare per le strade del centro. Osservando le vie e gli edifici, rifletté sul fatto che la città era senza dubbio donna: mutava con lo scorrere delle ore, si modellava e si plasmava con la luce, cambiava colore e aspetto in ogni momento. Si trovò nell’abbraccio di lunghe strade riparate da portici altissimi; arrivò in una enorme piazza elegante ricoperta di banchi del mercato, in cui notò divertito la vivacità della gente, i sorrisi bonari delle signore di mezza età sedute ai caffè mentre chiacchierano e salutano i passanti: eleganti, un po’ pettegole e curiose. Ma come? Proprio lui che aveva passato la vita a combattere contro gli stereotipi di genere, ora era lì a dare etichette di “maschile” e “femminile” ad una città che neppure conosceva e che doveva solo fare da sfondo neutro ad un incontro? Cercò di discolparsi pensando che alla fine aveva subito talmente tanto il condizionamento mentale del suo ambiente di origine che sarebbe stato difficile essere scevro da ogni sovrastruttura di pensiero; sorrise un’altra volta cercando un elemento maschile che andasse a pareggiare la materna accoglienza di Cuneo e vide al centro della piazza una statua imponente che rappresentava un uomo severo che si ergeva al di sopra delle case e dei palazzi, la cui testa sfiorava quasi le nuvole.
Guardò l’orologio: mancava poco all’ora concordata. Sentì una stretta alla pancia e il forte desiderio di girarsi e andarsene via. Doveva cercare con più precisione il luogo che avevano scelto per conoscersi; prese il telefono per controllare le coordinate che aveva e si rese conto di essere abbastanza vicino al parco Fresia. Non voleva arrivare per primo; tantomeno voleva dimostrare di essere in attesa già da un po’. Quindi decise di aggirare la piazza dal lato opposto
Eccomi, in balia del vento e delle correnti, solo contro tutto e tutti.
È bastato un attimo, un piccolo ed insignificante attimo, uno come tanti altri, e sono fuggito da te . Mi tenevi stretto fra le tue mani e tutto aveva senso, ma ora sono libero. Davvero libero? In realtà sono confuso, eccitato e spaventato , mi perdo e mi ritrovo , sono trasparente e immenso , sono ovunque, sono fatto d’ aria.
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.
Così ti ho vista, ridevi, è stato solo per un breve istante , ma ti ho vista : guardavi il cielo, persa tra le nuvole , mi chiamavi , hai allungato le tue braccia verso di me , ma ormai era tardi . Non posso più tornare .
Attorno a te , sotto di me, vedo una città immensa. Da dove guardo io sembrano tanti grandi, enormi libri. Ogni casa una storia, ogni finestra un capitolo di un avvincente romanzo , dove tutti sono protagonisti . Ed ora è il mio momento. Cosa mi aspetta ? Dove sto andando?
Mi guardo intorno e vedo nuvole, fumo, tanto fumo, fabbriche, case e un ponte , lungo e grigio. Attraversa e sovrasta un placido fiume, la corrente che mi guida segue il suo corso ed ora sono acqua, sono blu e sono profondo. Non mi posso fermare, vorrei, ma non posso. Non decido io il mio cammino , sono travolto dagli eventi , che si presentano sotto forma di una folata d’aria autunnale che mi spinge verso una piazza , gremita di gente. Nessuno alza lo sguardo, nessuno sembra accorgersi di me, ma io vedo ognuno di loro. Vanno di corsa, sguardi sfuggenti, sembra che abbiano fretta e non hanno tempo di alzare lo sguardo . “ Guardatemi ! Sono qui!” urlo , ma nessuno mi sente . Mi rassegno e proseguo il mio volo, ma non sono sconsolato perché sotto di me c’è un gruppo di bambini che gioca a pallone, percepisco la loro allegria e tutto cambia ancora forma e colore. Mi faccio cullare dal suono delle loro grida di gioia e delle loro risa, è bellissimo , chiudo gli occhi e proseguo in pace . Nulla mi fa più paura, sono gioia, colorata, e serenità, fatta di luce.
Anche qui non posso sostare a lungo, sono preda di cambi repentini, prima in alto, poi in basso, uno scatto a sinistra e poi di nuovo in cammino. Ora comincio ad essere stanco.
Alle mie spalle la città, mi sto allontanando ; gli alti caseggiati sono ormai lontani, sono in periferia e cambiano suoni ed odori. Mi giunge alle orecchie un piacevole scampanellio, la corrente mi attira verso questa musica, che sa di natura. Sento campanacci suonare e placide mucche muggire. “ Vorrei passare del tempo con voi, ma non mi posso fermare, amiche mie” urlo a squarciagola. Girano il loro muso verso la mia direzione, mi chiedo se mi avranno sentito e penso che questa è pura magia, mi sento leggero e riprendo quota. Dall’alto vedo la foresta, tanti alberi con rami appuntiti , alcuni già spogli, sembrano volermi acchiappare; ma mi faccio più leggero : “Provate a prendermi! “ rido beffardo , per me è quasi un gioco, fingo che non sia sopravvivenza, mi diverto e guardo l’orizzonte. Mi sento inarrestabile e invincibile, quando penso che ce la farò , che ormai ho superato il pericolo, sento lo strattone, è forte e mi rimette al mio posto. Faccio forza con tutto me stesso, ma non mi sposto più e non mi posso muovere, sono bloccato, fra i rami, inutile e senza scopo.
Il mio viaggio è forse finito? Così presto ? Avevo tante cose da vedere , da scoprire.
Attorno solo silenzio, assoluto, il mio sguardo si perde nel rosso -ambrato delle chiome intorno a me e fisso il pavimento di terra.
Non voglio arrendermi, non ancora! Dal basso sale su un sentore di muschio , che placa i miei pensieri, più di mille parole. Mi rilasso e mi metto in ascolto, cercando intorno a me segni, dettagli.
Ad un certo punto sento qualcosa, una musica, forse una canzone. Sotto , sulla strada sterrata , vedo una bambina con degli stivaletti di gomma gialli ed una mantellina colorata come l’arcobaleno, canticchia una canzone saltellando. “… se sei triste, infelice e non sai perché, pensa alle cose che ami di più…” e poi prosegue elencando tante cose semplici e belle. Questo è il segnale che stavo aspettando. Se è magia mi scorgerà, penso. Ed avviene. Si ferma, alza lo sguardo e mi vede. “Mamma, guarda che bello , il mio palloncino , tra i rami” urla con gioia.
Ora lo so, ne valeva la pena.
Me la sono presa, la mia ora di libertà, l’ho conquistata e ne sono fiero. Ho pensato adesso basta, non si può vivere in questo modo assurdo. Troppo il tempo che ci tengono chiusi in casa, tappati, nascosti, soli, non possiamo neppure andare a bere un caffè. Questa non è vita, gli uomini devono stare in società, devono frequentarsi, parlare insieme. Ho aperto l’armadio, chiuso giusto da un mese, ho preso l’abito delle occasioni importanti, perchè l’occasione era veramente importante. Vitale. Volevo dimostrare al mondo che il potere che ci domina l’aveva davvero fatta troppo grossa. Per vendere e arricchirsi sui vaccini aveva inventato addirittura una pandemia, costringendoci con la forza a stare prigionieri nelle nostre tane. Chiudendo la porta di casa mi sono sentito il Prometeo del 2021. L’aria per strada mi ha quasi stordito: fresca, frizzante, non ero più abituato a sentirla nei polmoni. Silenzio, tremendo. L’asfalto faceva risuonare in modo innaturale i miei passi. Ero da solo. Dalla finestra di casa non avevo avuto la percezione della desolazione, tutta colpa di quei signori che ci muovono come marionette. Dopo alcuni metri ho cominciato ad abituarmi alla nuova prospettiva solitaria e ho cominciato ad assaporare la mia condizione di privilegiato, di uomo controcorrente. La brezza gentile elevava i miei pensieri oltre le case, li faceva librare nel cielo. Mi sentivo nella stessa condizione del Bombarolo di De Andrè, capace di non accontentarsi dell’ora d’aria che i secondini gli concedevano come un’elemosina. Li aveva battuti, aveva vinto con la fuga. Evaso. Bravo. Così farò io. Respirando ora a pieni polmoni la mia nuova aria di libertà, addirittura mi sono messo a fischiettare il motivo della canzone di Storia di un impiegato, mentre la città si faceva incontro ai mei passi accogliente e silenziosa. Chissà cosa avrei trovato. Magari i negozi erano aperti, tutto normale, tutto come prima. Solo il mio quartiere era stato isolato. Mentre mi perdevo in questi pensieri nuovi, rigenerati dalla libertà, ho sentito un rumore di auto. Non mi sono fidato e, nascondendomi dietro un cassonetto ho visto che era una pattuglia della polizia. pretoriani schifosi. Sempre pronti a schiacciarci per fare un favore al potere. Che schifo. Schifo anche l’odore del tubo di scappamento, non ero più abituato a certi aromi. Rialzatomi, ho ripreso ancora più determinato la mia marcia trionfale contro il potere,verso la libertà. Una panchina è diventata il trono da cui ho contemplato il mio regno solitario, finalmente soddisfatto. Qualche faccia impaurita occhieggiava dalle finestre, mi guardava stupita, qualche anziana signora mi faceva segno con la mano che avevo fatto una cattiva azione, che sarei finito male. Ossigeno per il mio senso di eroica impunità, di trasgressione. Avevo la situazione in pugno, ero la prova evidente della falsità delle notizie che diffondono i media, avevo avuto ragione del potere che ci opprime, che ci toglie la sacra, inviolabile libertà. Ancora qualche metro nel centro storico e avrei compiuto l’impresa, poi mi sarei ritirato da vincitore. A poco a poco mi avvicinavo ai portici. Giunto vicino al comune mi sono accorto, con un certo dispetto, di non essere proprio l’unico a voler dimostrare la falsità del sistema che ci governa. Si aggiravano a gruppetti di tre o quattro, la mascherina messa in modo provocatorio e stravagante. Mi sono stati simpatici, immediatamete. Avevo trovato qualcuno con cui parlare che condivideva la mia situazione, le mie idee, il mio disagio. Abbiamo immediatamente fatto amicizia. Finalmente qualcuno che condivideva la mia eroica posizione. Abbiamo bevuto e fumato insieme tutto il pomeriggio. Sono tornato a casa contento dei nuovi amici, stremato dal pomeriggio all’aperto. Un principio di raffreddore, nulla di grave. Una camomilla e una buona dormita. Avvertirò il medico, ma per un semplice raffreddore mi manderà al diavolo. Mi hanno tenuto un mese in terapia intensiva, dentro il pallone a ossigeno. E grazie a loro riesco a parlarne.
la città che ci sembra tanto sicura e protettiva in realtà è come una foresta, anzi peggio, siamo tutti come foglie che si lasciano trasportare dall’aria che le porta dove vuole perché loro non oppongono resistenza, in questo mondo di foglie io voglio essere un albero, voglio che l’aria mi sfiori la chioma mentre decido io dove andare ,decido io la mia strada creando la mia aria che mi trasporti dove scelgo di ridere, scherzare se sono triste piangere; non sarò come gli altri che si fanno portare dalla stessa aria, nello stesso modo, negli stessi posti, io andrò controvento o almeno ci devo provare non è semplice il vento della città è forte mi spinge più che può verso la normalità. Apro gli occhi oggi è un’ altra giornata come le altre devo svegliarmi e andare in quella scuola in cui non ho amici ma è l’aria della città, mi dice di andarci perché tutti lo fanno, è da brava ragazza; non vedo l’ora che finisca così posso essere libera, tornare a casa per poi fare quello che mi pare: mangiarmi un bel panino o anche due ma poi mi ricordo che il vento è ovunque anche a casa se mangio troppo poi ingrasso e le ragazze grasse non sono belle giusto? devo essere perfetta devo essere come gli altri come vuole la città, ogni tanto ci penso ma poi mi ricordo che devo combattere, devo farcela voglio raggiungere la mia aria. Sto studiando già da tutto il giorno ma devo continuare non so le cose bene ancora, quanto vorrei correre fuori all’aperto come un qualunque altro animale può fare mi piacerebbe essere come loro liberi, coccolati ,amati , felici ma sono nata umana e come tutti gli umani devo essere in orario , fine ,usare un linguaggio appropriato eccetera, eccetera ; vorrei avere un verso qualunque così direi cosa voglio senza che gli altri capiscano, vorrei volare così si che sentirei l’aria quella vera; ma devo tornare al mondo reale per quanto mi dispiaccia stavo così bene con gli occhi chiusi a sorvolare la citta, allora torno a essere una foglia per qualche istante finché non bisogna andare a dormire ma per fortuna manca poco “solo” la cena e poi posso di nuovo estraniarmi nel mio mondo o così pensavo finché non ho capito che quella sera sarebbe stata molto lunga, avevamo ospiti a cena era ora di portare la maschera quella che mi fa sembrare sorridente e allegra nonostante la stanchezza, quella con cui tutti mi conoscono, poche persone mi hanno visto senza, solo quelle che sono riuscite romperla e a vedermi per quella che sono ma non sono l’unica tutti hanno una maschera tutti nessuno escluso c’è chi la usa di più chi di meno ma nessuno si mostra per chi è realmente, infatti a quella cena sembravamo una famiglia normale senza problemi, perfetta ma non è per niente così. Avevo voglia di andare in camera, smettere di recitare, essere me stessa e per fortuna fù così dopo poco tempo tornai in camera chiusi gli occhi e la mia testa era tra le nuvole sopra la città, in sottofondo una musica jazz che cullava le mie orecchie, stanche di ascoltare le parole finte ascoltate poco prima, e così mi addormentai. I miei occhi si aprirono ero nel mio letto come gli altri giorni ma sentivo qualcosa di diverso in me qualcosa di nuovo, da quella sensazione capii che era il giorno, il giorno per prendere quella maschera e scaraventarla per terra, spezzarla in mille pezzi; mi alzai andai a scuola ma stavolta ero io, dicevo quello che pensavo, ridevo, scherzavo non sentivo quasi più l’aria della città forse gli altri mi guardavano male ma per la prima volta nella mia vita non mi importava, uscita da scuola iniziai a correre e correre controvento finché non sentii “L’aria, quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi” era quello che cercavo di fare da anni e ora ero libera, sentivo l’aria, la più bella che mi avesse mai sfiorato la pelle, i capelli, il cuore…
Da quel momento decisi che non mi sarei mai fermata e avrei continuato a correre controvento.
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi.
(Tonino Guerra)
Sono circondato da uomini che non conosco, non li comprendo e le loro parole paiono vane, tutto ciò che sento è l’aria, un lieve fruscio che delicatamente struscia sul mio volto, portandolo quasi a lacrimare, non ne comprendo la causa ma mi sento leggero e come se il suono dell’aria producesse un suono piacevole e armoniosa.
C’è qualcosa che non comprendo, l’aria che mi circonda sta cambiando non è più piacevole da avere attorno e non mi fa sentire a mio agio, sembra che questo cambiamento provenga dalle persone che ho attorno, o meglio da ciò che hanno tra le mani, e non parlo di armi, ma di una sigaretta. Non fanno altro che fumare e rovinare l’aria che li circonda, rendendola pesante e disagiante. Non comprendo il perché di questo gesto, ma so solo che vorrei allontanarmi da loro e tornare a essere circondato da aria piacevolmente leggera, che mi faccia tornare un sorriso sul volto. Ma questo non è abbastanza per risolvere il problema, vorrei parlare con queste persone e comprendere il perché delle loro azioni, ma questo mi risulta troppo difficile alzare il mio capo ed andare in contro a quella cortina invalicabile di fumo, dove quelle persone sembrano star bene per me è pressoché impossibile. Se voglio delle risposte devo superare quella barriera e per farlo devo guardare in faccia chi ho davanti, e guardandoli sembrano persone più che normali, che si divertivano nello stare assieme, come faccio io con i miei compagni, anche se loro sono decisamente più grandi di noi. Una cosa che noto e che sembrano ben consapevoli di ciò che fanno, e allora perché continuano a farlo?
Sfruttando un momento di silenzio, facendomi coraggio decido di porre a uno di loro la fatidica domanda “ perché fumate?” il senso di disagio nel vedere i loro occhi puntati su di me che in assoluto ero il più piccolo mi divorò, ma continuai a guardare fisso negli occhi quell’uomo a cui avevo posto la mia domanda, dopo qualche secondo di silenzio tutti loro iniziarono a ridere e non ne comprendevo la causa la mia era una domanda più che seria allora chiesi con aria furiosa “cosa c’è da ridere!?” In poco smisero di ridere e l’uomo a cui avevo posto la domanda mi rispose seriamente, sembrando quasi triste, girando la testa vidi che gli altri avevano lo stesso sguardo, tornai a guardarlo negli occhi, e sentii questo: ”fumiamo perché è l’unico modo di alleviare i nostri problemi” il peso delle sua parole era enorme, ma per me il discorso era insensato, anche io ero pieno di problemi, il giorno seguente avevo una verifica difficilissima, ma non avevo mica bisogno di fumare, la mia via per alleviare i miei problemi era stare sulle nuvole, come spesso mi diceva la maestra, la mia vasta immaginazione fuso allo stare all’aria aperta mi concedeva di fare ciò che volevo. Continuando a guardare negli occhi l’uomo gli dissi come facevo io, e dopo qualche istante di silenzio vidi l’uomo gettare a terra la sua sigaretta e calpestarla in serie tutta la compagnia lo imitò, e su tutti i volti apparve un sorriso, quasi fiero, su di me accadde lo stesso.
Tutti assieme respiriamo aria vera e pura, e in poco compresero quanto fosse meravigliosa l’aria e il suo suono.
Dopo avermi ringraziato, di avergli fatto aprire gli occhi, decisi di tornarmene a casa a studiare, dato che il sole stava calando e la verifica di certo non mi avrebbe aspettato.
“L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. Questa è la frase che leggo ogni giorno sulla copertina del mio libro preferito sul parapendio.
Sogno ogni notte di volare da quando ero bambina e sembra così vera quella libertà…quell’aria che mi scompiglia i capelli. Purtroppo però, mi sveglio ogni mattina con la testa sul cuscino e mi rendo conto che nulla è reale e che io non posso vivere tutto ciò.
Ciò che separa me dal mondo esterno sono le mura di un ospedale. E bene sì, soffro di una malattia chiamata IPF (fibrosi polmonare idiopatica).
Me l’hanno diagnosticata circa un annetto fa quando avevo 16 anni e il tempo medio di sopravvivenza è di circa 2-5 anni.
Non ho ancora accettato tutto questo, spero ancora di poter guarire e tornare a respirare a pieni polmoni quell’aria che mi fa sentire viva. I miei polmoni però non funzionano proprio bene, avrei bisogno di un trapianto per sopravvivere ma non è ancora stato trovato nessuna compatibilità con i donatori.
Passo le mie giornate tra esami e visite e i corridoi dell’ospedale sono diventati la mia seconda casa. Sono i “portici” che percorro ogni giorno quando esco dalla stanza in cui sono ricoverata. Quando posso suono la chitarra per provare a distrarmi ed è un ottimo modo per ingannare il tempo.
Molto spesso gioco con la mia immaginazione e mi ritrovo con la testa fra le nuvole. Forse lo faccio per scappare dalla realtà per sentirmi anch’io normale.
Sono un’adolescente voglio anch’io sentirmi libera; voglio uscire, stare fuori fino a tardi, voglio le risate fino alle lacrime, voglio ballare, voglio l’amore e le delusioni, voglio correre veloce sotto la pioggia con i brividi lungo la schiena e sentirmi spensierata. Voglio le prime volte di tutto ma i miei desideri non sono realizzabili.
Sono arrivata al punto che lascio agli altri il compito di essere felici e cerco di essere serena. Faccio della serenità il “davanzale” su cui appoggiarmi ogni sera quando la giornata mi ha buttata a terra e non mi ha dato le forze per rialzarmi.
Sono stanca di tutto e a volte vorrei arrendermi e non lottare più contro qualcosa che so già che vincerà. È come chiedere ad una gazzella di combattere contro un leone, si sa già chi dei due avrà la meglio sull’altro.
Oggi specialmente sono stanchissima, ho fatto tantissimi esami e vorrei che il letto mi inghiottisse.
Proprio nel momento in cui mi sono seduta sul letto per riposarmi arriva il medico.
:” Aria abbiamo trovato un donatore compatibile con te, domani riceverai il trapianto dei tuoi nuovi polmoni”.
:” Grazie dottore è una bellissima notizia”.
:” Ti prometto che andrà tutto bene”
Questa notte non riesco a dormire, fisso il soffitto e penso a ciò che mi ha detto prima il dottore. Sono felice ma al tempo stesso ho anche tantissima paura perché non so come andrà l’intervento e ho paura di non farcela dato che sono fraglie.
Tra un pensiero e l’altro è sorto di nuovo il sole e mi trovo già in sala operatoria e pochi minuti dopo mi addormento nelle mani del destino.
Al mio risveglio la prima faccia che vedo è quella del medico che mi comunica che l’operazione ha avuto successo e che io sono finalmente guarita.
La mia felicità è immensa, finalmente posso tornare a vivere.
Due settimane dopo mi dimettono dall’ospedale e viene a prendermi mia madre.
Che bello! Finalmente posso a tornare a casa ed essere felice anch’io.
Arrivata a casa speravo che ci fosse mio padre ad accogliermi a braccia aperte ma lui non c’è da nessuna parte.
Mia madre triste mi sorride e io capisco tutto, i polmoni nuovi me li ha donati mio padre.
Lei mi consegna una busta e io la apro subito…contiene un biglietto per fare parapendio tra una settimana.
La settima è passata in fretta, oggi è il grande giorno, posso realizzare il mio sogno.
Prendo la rincorsa e corro più veloce che posso, i miei piedi si staccano da terra e inizio a volare.
Subito sento il vento tra i capelli, l’aria che mi sollettica il naso. Mi sento vicino a mio padre.
Sono felice, sono finalmente libera.
Mi chiamo Anna ho sedici anni e vengo da Roma, una grande città piena di opportunità e storie da raccontare, ma allo stesso tempo è proprio in questo luogo dove mi sento oppressa da responsabilità e paranoie. Spesso mi succede mentre cammino tranquilla per il centro, all’improvviso mi vengono in mente tutti gli impegni che ho, ed è in quel momento che l’aria inizia a mancarmi. Una volta ho sentito dire “Respiriamo aria in prestito, goditela”, ma come faccio a godermi l’aria sapendo che ci sarà sempre qualcuno che cercherà di togliermela, che proverà a tagliarmi le ali per volare e togliermi l’aria per respirare? Essa la ricollego molto facilmente alla libertà, ci sarà sempre qualcuno che proverà a limitare la nostra libertà.
Mi ha colpito molto una frase che avevo letto in una poesia di Tonino Guerra: “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. L’aria è sempre intorno a noi, ma spesso essa può diventare una nube nera che ci circonda e con i suoi fulmini ci bombarda di insicurezze e paranoie. Però questa nube può schiarirsi, piano piano, quando si ride, quando si ascolta della musica o quando si sta in compagnia delle persone giuste. Quando sono in casa e sento che l’aria comincia a mancarmi, l’unica cosa che vorrei fare è sparire, nascondermi da qualche parte in silenzio, ma ho imparato a combattere questi attacchi di panico principalmente grazie alla musica. Ascoltare quelle leggere melodie mi fa ritornare l’aria nei polmoni e mi trasporta in un mondo semplice e creativo, pieno di amore e spensieratezza.
Ricordo di un episodio in particolare accaduto la scorsa estate, era una lunga giornata calda e afosa, non stavo molto bene fisicamente per quello sono rimasta a casa a riposarmi. La mamma è stata a lavoro tutto il giorno e mi aveva dato due compiti: mettere a posto la camera e studiare storia per l’anno a venire. Dato che non mi sentivo molto bene, senza accorgermene ho passato l’intera giornata a dormire e guardare film e serie tv. Quando la mamma tornò vide che la camera era in disordine e non c’era traccia di libri sulla scrivania. A quel punto mi sgridò, ripetendomi più volte di essere irresponsabile, testarda e di essere una delusione, ma non solo per le mansioni non svolte, ma che da sempre sono solo un peso, per lei e per gli altri. Fu proprio questo il giorno in cui ebbi il mio primo attacco di panico. Cominciò a mancarmi l’aria, iniziai a respirare con fatica e il battito cardiaco accelerò. È in quel momento che quella nube di pensieri circondò la mia testa, nella quale le parole della mamma continuavano a tornarmi in mente. Volevo solo andare fuori a fare una passeggiata, per cercare di respirare aria non contaminata da paranoie e insicurezze. Dopo aver fatto la passeggiata e ascoltato della buona musica iniziai a sentirmi meglio, l’aria fresca nei miei polmoni fa bene anche alla mia mente. Ho fatto quattro lunghi respiri ed è lì che risentii il sentimento di libertà, non importava quante cose poteva dirmi mia mamma, i miei amici o i compagni a scuola, nessuno poteva togliermi l’aria da respirare e la libertà di vivere.
Quindi è ora di provare a togliere quella nube di pensieri negativi che ci circonda. Cerchiamo di rimanere sempre in giro, ci agitiamo, sudiamo, perché finché ci muoviamo abbiamo l’illusione di non stare fermi. Ma in realtà non stiamo andando avanti, stiamo andando indietro. Siamo convinti di saltare verso il cielo e non ci accorgiamo che in mezzo c’è il soffitto. Però se proviamo a saltare tutti insieme, aiutandoci l’un l’altro, dando Aria l’un l’altro, forse questo soffitto lo sfondiamo no?
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi. Inoltre è molto piacevole poichè ci rinfresca, e anche se non la vediamo ci offre un minimo di sollievo e ne siamo felici quando c’è.
Diventa più gradita quando ad esempio siamo al mare, specialmente sul lungomare quando camminiamo.
Secondo varie ricerche nei secoli passati l’aria di mare era vista come una panacea per (quasi) tutti i mali, dalla depressione alla tubercolosi.
Mentre ora si dice: “A differenza di quando si è a casa, in spiaggia si è più fisicamente attivi, cosa che smuove la situazione e ci fa sentire meglio. Il rumore del vento e dell’avvicendarsi delle onde può rilassarti, al punto da risultare in migliori abitudini di riposo”.
Per moltissime persone è così .
Però secondo vari studi respirare l’acqua salmastra può aiutare a ripulire i nostri polmoni: in Australia le persone affette da fibrosi cistica hanno più volte riportato ai propri medici che riuscivano a respirare meglio dopo aver fatto surf.
Così dopo questa informazione i ricercatori decisero di approfondire la questione e risultati vennero pubblicati nel 2006: i malati avevano meno infiammazioni a livello polmonare e necessitavano di un minor utilizzo di antibiotici.
Altre ricerche avevano visto se esistevano altri benefici per altre malattie come per esempio la bronchiolite, ma i risultati non erano stati chiari, ma si arrivò comunque a una conclusione che pensare che l’aria salata sia carica di ioni negativi in grado di influenzare la pressione sanguigna e migliorare l’umore è, invece, solo una credenza popolare.
Questo non significa che il mare non abbia effetto benefico sull’organismo: il sole e l’aria ricca di ossigeno sono sicuramente salutari. Soprattutto se ci si reca in località marine piccole e lontane dalle grandi città, dove l’inquinamento è sensibilmente ridotto, siccome in questi ultimi anni l’inquinamento sta sempre più aumentando e questo non aiuta sicuramente la nostra salute, ma ahimè, porta sempre più problemi e talvolta molto gravi.
Ultimamente ci sono anche molte innovazioni per provare a ridurre questo inquinamento che sta aumentando, come ad esempio si consiglia vivamente di comprare macchine elettriche e/o ibride.
E aiutare tutti insieme per riuscire a far qualcosa, utilizzare più spesso mezzi di trasporti pubblici, camminare, spostarsi in bicicletta, riciclare, aggiustare le cose e non scartarle subito, ecc..
Con tutti questi aiuti l’inquinamento non scomparirà, ma riusciremo a far qualcosa per fermarlo un po’.
Ci sono davvero tanti consigli e aiuti per far sì che si riduca questo inquinamento per il mondo; altrimenti continuerà sempre di più peggiorare e sarà anche pericoloso per le nostre generazioni future.
L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi, le disse il nonno in quella sera di metà primavera, seduti fuori a osservare le farfalle. La mattina seguente, Alice si svegliò all’alba, perché doveva dare le pastiglie al nonno. Poi andò in cucina per farsi un caffè. ” Buongiorno” le disse la nonna seduta a tavolo a fare colazione. ” Come sta oggi il nonno?” le chiese. ” Sta peggiorando” disse la ragazza mentre si stava prendendo una tazzina dalla lavastoviglie. Qualche mese prima gli era stato diagnosticato un tumore al polmone, così, per aiutare il nonno malato, Alice si trasferì. Ogni giorno peggiorava sempre di più, fino a rifiutare l’ossigeno. ” Sto bene non mi serve” diceva. La parte che preferiva di più della giornata era quando lo si portava nel campo davanti casa a osservare le farfalle. Sapeva qualsiasi cosa da sapere su di esse. Le disse ” ogni volta che qualcuno ti pensa una farfalla viene da te e si posa sulla spalla destra”. Poi lo si riportava dentro e lo si metteva a dormire. Questa era la sua routine ormai da mesi. La nonna era distrutta, non riusciva a crederci, dopo 50 anni passati insieme, veder suo marito soffrire era distruttivo per lei. Il giorno seguente stessa storia, sveglia presto per dare le pastiglie, mangiare pranzo, andare dalle farfalle e poi a dormire. Si ripeté per alcune settimane finché i medici non decisero di portare il nonno in ospedale per ricoverarlo. Per farlo felice, decisero di portargli una teca con un bozzolo di farfalla. I giorni passavano e lui era sempre coricato in quel letto dell’ospedale, la maggior parte della giornata la passava a dormire, poi quando si svegliava parlava con Alice. Loro parlavano di tutto, erano molto legati, nonostante si vedevano poche volte a causa della distanza. Una notte, Alice decise di fermarsi a dormire in ospedale, sul divanetto di fianco al letto del nonno. Durante il sonno, fece un sogno. Era su un tetto di un edificio, sul punto di cadere, non pensava a niente, solo a quanto voleva far finita della sua vita. Si stava per buttare, pensando a quante persone avrebbe dato gioia la sua morte, finché qualcuno non le prese il braccio e la salvò. Là buttò per terra e quando si alzò, vide chi l’aveva salvata, suo nonno. Gli chiese ” perché l’hai fatto. Io non voglio rimanere in questo mondo” lui gli rispose ” piccola mia, non devi scoraggiarti, la vita è fatta di ostacoli ma per affrontarli devi essere coraggiosa perché il mondo a volte può essere dalla tua parte, e a volte no. Devi sentirti libera di volare e di fare ciò che vuoi, come una farfalla. ” Lei si mise a piangere fra le sue braccia, sentendosi al sicuro. Con la voce di sua nonna, si svegliò. ” Tutto bene Alice?” ” si sì, tutto bene nonna, ho fatto solo un sogno”. Intanto il nonno si svegliò. Oggi era il grande giorno, i dottori lo avrebbero operato. La nonna era molto preoccupata. Dopo qualche ora, un’ infermiere arrivò per prendere il nonno e portarlo in sala operatoria. Finito l’intervento, i medici andarono a comunicare lo stato del paziente. ” E andato tutto bene, adesso sta riposando”. Dopo aver saputo la bella notizia, decisero di tornare a casa per riposarsi un po’. Finalmente dopo vari mesi passati sveglia, Alice si addormentò tranquilla. Durante la notte però, Alice si svegliò a causa di un forte rumore proveniente dalla cucina. Scese le scale e davanti ai suoi occhi vide sua nonna piangere al telefono. Appena riattaccò disse ” tesoro mio, il nonno è morto”. Non realizzò, non poteva essere. Si mise a piangere. Dopo chiese spiegazione alla nonna e lei disse che qualcosa nell’intervento era andato storto e che i medici non se n’erano accorti. Il giorno dopo, andarono in ospedale per prendere le sue cose. Entrata nella stanza, notò una cosa, la farfalla era sbocciata, ma non c’era, era volata via. Nei giorni seguenti si fecero i funerali. Dopo la messa è avvenuta la sepoltura, Alice davanti alla tomba guardava la foto di suo nonno. Nel silenzio più assoluto, una farfalla si appoggiò sul suo braccio destro, la guardò e sorrise, era la farfalla che aveva regalato a suo nonno.
La campanella suona, le grida riecheggiano per tutti i corridoi. Fuori i fiocchi di neve scendono abbondanti e imbiancano le strade. Metto i miei libri dentro alla borsa ed esco per dirigermi alla macchina. “Maestra Marica” sento urlare da alcune mie alunne: Anna, Chiara e Anita. Mi raggiungono e la piccola Anna mi sporge con i suoi guanti rosa un pacchetto rosso con dei fiocchi dorati. Faccio un grande sorriso e le ringrazio per il bel pensiero. Abbraccio tutti i miei cari alunni e mi avvio verso l’automobile, parcheggiata un po’ lontano dalla scuola perché questa mattina non ho trovato parcheggio. Inoltre mi sono scordata l’ombrello e mi maledico mentalmente per essere così sbadata. I fiocchi di neve continuano a scendere insistentemente e il mio cappotto sta diventando sempre più fradicio. Cerco di riparare la borsa con dentro i libri per non farli bagnare quando sento qualcuno urlare il mio nome: “Ciao Marica” mi giro. Alessandro, uno dei miei colleghi, sta correndo verso la mia direzione. Mi fermo: “Anche tu non hai trovato parcheggio eh?” mi dice con un leggero affanno dovuto alla corsa. “Già, tutti i posti erano occupati e ho dovuto lasciare la macchina nel parcheggio del supermercato” gli rispondo. Alessandro sorride: “Io ho parcheggiato lì vicino quindi se vuoi ti posso accompagnare con l’ombrello, almeno non ti prendi il raffreddore” Mentre camminiamo verso il supermercato stiamo in silenzio, finché lui decide di rompere il ghiaccio “Odio l’inverno… il freddo, la neve, devi stare tutto il giorno chiuso in casa” dice lui per poi sbuffare. A quella affermazione mi fermo e lui si gira a guardarmi confuso “Come fai ad odiare l’inverno? Si, fa freddo ma basta mettersi un cappotto e una sciarpa, la neve è bellissima, puoi fare i pupazzi o giocare a palle di neve. Inoltre la sera puoi guardarti un film natalizio con una cioccolata calda, i popcorn appena sfornati e la coperta calda sulle gambe e…” mi blocco senza fiato. Per qualche secondo nessuno dice niente, poi inizio a ridere per la velocità con cui ho detto tutte quelle parole e Alessandro si unisce a me. Intorno a noi si crea quella lieve nuvoletta di fumo dovuta al freddo dell’aria. Come dice Tonino Guerra “L’aria è quella cosa leggera, che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi” non sono mai stata più d’accordo con questa frase di questo momento. “Hai da fare oggi pomeriggio?” gli chiedo, decisa a fargli cambiare idea. Sembra un po’ spaesato dalla mia proposta, ma dopo poco risponde “No sono libero”. Iniziamo a passeggiare sotto i portici del piccolo paesino in cui abitiamo, la neve inizia a scendere con meno insistenza e l’aria fresca mi scompiglia i capelli. Mi sento leggera e spensierata, mi sento con la testa fra le nuvole quando mi ricordo della mia missione. Mi guardo intorno e decido di cominciare dalla piccola tavola calda da cui fuoriesce un profumo misto tra tabacco, cioccolato e zenzero. Entriamo e ordiniamo due cioccolate calde. In pochi minuti i nostri ordini sono sul tavolo e ci godiamo la bevanda ascoltando la musica jazz che fuoriesce dal giradischi esposto sul bancone. Finita la cioccolata prendo Alessandro sotto braccio e lo guido fino all’asilo del paese. I bambini sono appena usciti dalla struttura e si stanno tirando delle palle di neve. Mi abbasso e prendo un mucchietto di neve formando una pallina e la tiro proprio sul petto di Ale. Lui decide di vendicarsi e inizia una vera e propria battaglia che finisce quando sentiamo il fiato mancare. Si sta facendo tardi e decido di portarlo nel posto più magico di tutti: l’albero di Natale al centro della piazza. L’albero è decorato con luci, palline colorate e in cima una stella dorata. Al di sotto dell’albero un piccolo coro canta canzoni natalizie. Io e Alessandro ci guardiamo: “Ok, forse l’inverno non è poi così male” afferma lui. Sono felice! Ho completato la mia missione e ho conosciuto un nuovo amico con cui sto veramente bene. Ci avviamo per tornare alle auto. “Grazie per oggi, scrivimi così potrai farmi vedere altri aspetti positivi dell’inverno” mi dice sorridendo, faccio una piccola risata e lo ringrazio a mia volta. Lo saluto e parto per tornare a casa.
Aria. Aria leggera. Aria che diventa più chiara quando ridi. E’ vero: aria di vacanza. Aria di mare. Vuoto d’aria. Andare a gambe all’aria. La prof. di lettere una volta è scivolata su un gradino e ci è andata. E’ stato divertente. Peccato che avesse i pantaloni.
Sull’aria di un valzer. Da piccola sognavo di pattinare sull’aria di un valzer, ma non avevo i pattini. Cioè, li avevo, ma me li aveva passati un cuginetto più grande che portava il 38 di scarpe. E io il 34. Ecco perché non sono diventata una grande pattinatrice.
Aria pesante. Mi manca l’aria… Un’aula a Palazzo Campana, ultimo piano, primo esame. Arrivo per tempo, troppo per tempo. Non ci sono banchi, solo lunghi tavoloni e panche. Pochi studenti che ripassano e non alzano gli occhi. Mi siedo su una panca, seconda fila. Arrivano due ragazze, allegre, disinvolte. Mi sposto. E subito arrivano altri studenti, vocianti, rumorosi e ancora mi sposto, sempre più vicino al muro. Il brusio aumenta, poi, improvvisamente, silenzio: è entrato il professore. Sguardo corrucciato, appello. Allione. Amerio. Bernardi. Bianco… Un timido colpo di tosse, poi un altro, che tento inutilmente di soffocare. E’ una tosse nervosa, che si fa sempre più insistente, che mi fa lacrimare, che mi lacera la gola, che non riesco a calmare. Di dietro, qualcuno mi passa una pasticca Leone, gialla. Niente da fare. Il professore interrompe l’appello, infastidito. Soffoco. Mi manca l’aria. Mi alzo, ma perché io possa uscire, devono alzarsi almeno le sette persone che hanno occupato la panca dopo di me. Col viso in fiamme, devo passare davanti alla cattedra. Sempre tossendo. Di quell’esame che tutti supereranno brillantemente, io prenderò uno scarso 22. Poi andrò a prender il treno per tornare a casa, nella mia città.
La mia città è quella dove sono nata, cresciuta, non invecchiata perché nel frattempo sono andata ad abitare altrove. Ma quando torno e ritrovo i suoi portici, i suoi palazzi tinteggiati ora a colori pastello, la via principale senza auto, dove bambini corrono e la gente può passeggiare anche con la testa tra le nuvole, tranquilla, mi sento a casa. Mi sentivo a casa quando tornavo da Torino e ritrovavo le strade non ancora asfaltate, gli orti, i prati, la bealera, l’osteria di torre Bonada col vialetto di giaggioli… Era bella, comunque, questa città, anche senza aree pedonali, quando le auto – poche – parcheggiavano dove capitava. Allora per chi abitava oltre il liceo, andare in centro significava lasciare poche case sparse, qualche sparuto palazzo e incamminarsi sotto i portici con la sensazione di affrontare un mondo diverso. Il martedì era il giorno preferito per “andare a Cuneo”. Si andava al mercato. Al mercato, in piazza seminario, c’era un camion, posteggiato sull’angolo. Dal telone che ricopriva il rimorchio spuntava una montagna di scatole di scarpe e, tra le scatole, un tipo longilineo, brandendo il tacco di un sandalo in una mano e un altoparlante nell’altra, arringava donne uomini e bambini con voce tonante.
– Non vi dò questo gioiello per ventimila lire, né per dieci, né per cinque, né per tremila lire, ma per duemila cinquecento lire. –
E si tornava a casa con un paio di scarpe che alla prima uscita avrebbe provocato bolle e arrossamenti, ma con la convinzione di aver fatto un autentico affare.
E, lasciando il mercato di allora per imboccare la via Roma di oggi, ecco un suonatore di sassofono e una melodia che risale al passato.
La musichetta… un salto indietro nel tempo e Julie Andrews è lì, con la sua chitarra e la sua ridicola giacchetta e il suo sorriso e io nel corridoio di casa mia sono lei, ballo come lei, voglio cantare come lei, ma non ci riesco, le note sono troppo alte, Il motivo non è lo stesso… Non diventerò una cantante, né un’attrice e neanche una bambinaia.
Ma cercherò di fare altre cose che mi piacciano e cercherò di farmi piacere quelle noiose, quelle difficili, quelle che non ho voglia di fare, quelle che mi fanno paura. Non mi lascerò spostare sulla panca da chi arriva dopo di me, ma mi alzerò e farò passare oltre i ritardatari. E non mi farò impressionare da un professore che mi guarda di brutto perché tossisco.
Così prenderò tanti bei voti dalla vita.
E’ un’aria fresca quella che li accoglie sul lungomare di Cabourg: ultima tappa delle vacanze. Lui si è laureato in letteratura francese e non poteva lasciare la Normandia senza vedere la città di Proust. Lei ha detto ai suoi che sarebbero stati a casa in serata e teme che il rientro diventi complicato. E’ la prima vacanza lunga che riescono a organizzare, anche se stanno insieme da un paio di anni. C’è nervosismo nell’aria e molta insofferenza reciproca. Continuano a passeggiare distaccati sul lungomare della città in mezzo ai turisti di agosto: lui si ferma a leggere cartelli storici davanti al Grand Hotel, lei scende sulla spiaggia resa sconfinata dalla bassa marea. Si perdono di vista.
Quando lui se ne accorge prova chiamarla, ma il telefono suona a vuoto:
– Ma che fretta aveva? Possibile che non possa mai aspettare? Ha visto che stavo leggendo. Quando vede una cosa si muove d’istinto. Segue il primo soffio d’aria leggera che ha intorno alla testa senza preoccuparsi di quello che accade intorno…
Lei non risponde perché ha lasciato il telefono in macchina:
– Perché è sempre così poco attento alle cose? Perché non si accorge di dove sono? Come è possibile che abbia sempre la testa fra le nuvole? E dire che gli ho anche detto che scendevo al mare e mi ha fatto cenno di sì con la testa…
Lui torna alla macchina. Lei si fa prestare un telefono ma non ricorda il numero preciso e lo sbaglia: nessuno risponde e comincia a preoccuparsi: forse non si è perso, forse è successo qualcosa. Cerca l’ufficio della polizia locale, ma non entra temendo di creare allarmi. Il mare sta salendo e lui scende in spiaggia per chiedere di una ragazza con pantaloni bianchi e maglia turchese: qualcuno dice di averla vista alla gendarmerie: si precipita, ma l’ufficiale dice che non è passata nessuna ragazza. L’aria sembra essersi fermata e non c’è traccia della brezza del mattino: la città si è fatta torrida. Lei torna sulla spiaggia, adesso è davvero angosciata:
– E se davvero è successo qualcosa? Un colpo di calore che magari gli ha fatto perdere i sensi…
Lui pensa che la città non è grande e non può essere sparita:
– Potrebbe essere stata aggredita quando ci siamo allontanati. Nei posti turistici a volte avviene anche in pieno giorno…
La paura cresce e si mescola ai ricordi delle belle giornate trascorse, al temporale nel campeggio di Fecamp, al dolce tipico pieno di burro che hanno scoperto e che è difficile da pronunciare, agli errori del navigatore entrando in Parigi, alla voglia che avevano di stare insieme in vacanza. Lei fissa i turisti e le sembra di vedere la maglietta grigia di lui vicino al bagnasciuga. Scende decisa verso quel punto lontano. Lui è in altro punto della città, ma sta arrivando sulla spiaggia: se non la trova tornerà alla polizia per chiedere aiuto. Quando arriva sul lungomare è sfinito, il mare è risalito sulla sabbia riducendo la spiaggia una striscia sottile. Si affaccia alla balaustra e finalmente la vede vicino a un ombrellone mentre parla gesticolando con un uomo con la maglia grigia.
Tornano al parcheggio eccitati e si spiegano ridendo le mancate coincidenze. E’ tardi: salgono in macchina e partono, ma continuano a parlare con entusiasmo e buonumore. Ci vogliono molti chilometri perché torni un po’ di silenzio. Quando si danno il cambio alla guida lui si mette a scorrere la playlist per mettere un po’ di musica: sulle note del saxofono di Coltraine pensano tutti e due alle cose che amano: alla pioggia in tenda o ai gusti nuovi e inaspettati, a disobbedire a googlemaps o semplicemente ad andarsi incontro sorridendo. All’aria di certe città sconosciute che fanno perdere e poi ritrovare.
Aria di casa.
Come una musica.
Dalle orecchie mi cade dentro.
E mi riporta là. Esattamente. Là.
La riconosco da un sapore. Un odore. Un colore.
Una voce che mi afferra al volo. Mentre neanche me lo aspetto.
Aria di casa.
Sotto le nuvole di un posto senza legàmi.
Dissotterra quella famigliarità che mi appartiene.
La posso suonare dentro di me.
Come una nota sola. O una melodia. Come quella volta.
Un minestrone. Il naso affondato in un cuscino.
Quel soprammobile nell’ingresso. Quel sorriso un po’ così.
Una ventata anche, di malinconia.
Oltreoceano i miei occhi. Li chiudo per assaporare.
Mi sottraggo alla grattugia del tempo.
E’ sensazione liquida che ingoio. Lenta.
Dal fondo della nuca precipita più giù.
La cartina idrografica di me: da cima a fondo.
Rivoli, rii, torrenti, fiumi e un mare di possibilità.
Aria di casa.
Come un solletico sotto il mento?
O la puntura di una zanzara?
Rimbocco le coperte del mio rifugio sicuro.
Un formicaio di ricordi. Di ciò che è casa. Per me.
Mi rifugio in un frammento di bosco.
Nel nome della città da cui provengo.
O del paese che ho ancora negli occhi.
Quando sono partita all’improvviso.
All’improvviso un vento contrario.
Un lascito non voluto:
tutta l’aria di casa in una borsa soltanto.
Si appiccica alla materia delle cose.
Ai risvolti dei vestiti. Agli ultimi possessi.
Anche ai finestrini d’auto: se li ha ancora.
O alla stessa pelle: come uno schiaffo.
Ogni doccia è un dolore che allontana un odore.
All’improvviso: fa la differenza.
Aria di casa: frammenti d’aria, briciole d’aria, un buco d’aria.
Certe volte, per prendere aria, devo allungare il collo come una giraffa.
Sopra i tetti. E bucare le nuvole. Quelle del cuore.
Vivo d’apnee. Cerco l’ossigeno della famigliarità.
Altrove lo cerco. Dopo aver frugato in ogni cassetto.
Certe volte invece, è aria di casa che più fritta non si può.
E allora scappo via. Me la lascio alle spalle.
Come un’amnesia. Come un rimorchio perduto.
E giro. Giro, giro, giro. Un girotondo per essere più leggeri.
Per pesare apparentemente di meno.
Su ogni bilancia. Di ogni città.
La tua aria di casa.
Me la ficchi dentro con un bacio. Saliva. Sperma. Sudore.
Carne della mia carne. Si mescola nelle mie cantine.
E rimarrà. Lì. Per sempre. Anche contro la mia volontà.
Aria di casa che non ricordo più.
Non mi basta che me la racconti.
Lei non c’è: dentro di me. Frugo e frugo.
Ma rimane assenza ingiustificata al fondo di ogni tasca.
Siamo ladri d’aria: gli uni degli altri.
La tua, mi sembra meglio.
E senza, mi sembra di morire.
Me la presti?
Non so dirti per quanto tempo.
A volte non so neanche chiedertela.
O ridartela indietro. Me la prendo e basta.
Ma tu già lo hai capito. Che mi servirà.
E domani. Grazie a te. Forse. La mia: sarà.
Certe volte vorrei fosse una polifonia. Un concerto d’arie.
In questo andare sbilenco del mondo. In mezzo alle tempeste.
Vorrei fosse come la materia dei nostri sogni.
E noi tutti: Morfeo, Ariel, Peter Pan.
Fino a che le nuvole non si spalanchino.
E scoprano tesori pronti a pioverci addosso.
L’aria di casa è cucita alla mia schiena. Come un paio d’ali.
Un ago: punti corti lunghi sbiechi o a croce.
Le memorie della pelle: un trampolino di lancio.
Quando è così, allora volo.
E rido. Mentre plano sulle città.
Rido di noi. Di voi che siete come ricami sulle mie ali.
Rido e piango: insieme. Non so scegliere. Non voglio scegliere.
Volo e basta. Rido e piango.
E tu?
Tu, forse, l’aria di casa, la percorri al contrario?
Lei nidifica nel futuro che saremo.
Una radice aerea d’ogni polifonia.
Ora spengo la luce. Cerco di prendere sonno.
Anche stanotte. L’aria di casa. Mi attraverserà.
Lisa si sveglia – anzi si alza, perché non ha punto dormito – quando ancora fuori è buio. L’aria fredda della notte ha lasciato una patina di ghiaccio sui vetri della porta del balcone. Quattro piccoli quadrati argentati dai quali cerca di guardare fuori.
– Prima cosa il caffè – dice sbadigliando, mentre accende il gas sotto una caffettiera che sta aspettando pronta al proprio posto, sul fornello piccolo. Sente lo spiffero d’aria arrivare dal buco della serratura e si accosta alla porta d’ingresso per girare verticalmente la chiave nella toppa.
Poi chiude il letto a scomparsa e mette sul tavolo una scodella, un piatto, un cucchiaio, un vasetto di miele che tira fuori con cautela da una sacca di tela rossa con delle scritte in bianco.
Lisa è appena tornata, dopo tanto tempo passato lontano e si sente un’ospite nella sua città; si muove in punta di piedi in quella stanza dove, da bambina, viveva con la nonna. Però è contenta di aver accettato l’invito a presentare il suo ultimo lavoro: “Sguardi tra nuvole in corsa”, una serie di racconti di uomini e donne che vivono nei paesi occupati, in continuo conflitto.
– Le parole della poesia di Tonino Guerra mi aiuteranno a introdurre l’incontro – riflette Lisa mentre versa il caffè bollente nella tazza.
– Le scriverò alla lavagna nel suo dialetto romagnolo: “L’aria l’e cla roba lizira che sta dalonda la tu testa e la diventa piò céra quand che t’roid” – declama – così forse la gente sarà portata a pensare che l’aria intorno può farsi più chiara anche nei momenti bui…quando si sa sorridere – pensa riponendo la tazza nel lavandino.
Poi si infila l’impermeabile, la borsa a tracolla e si avvia sotto i portici. Cammina verso la piazza e ritrova certi angoli della città immutati, altre strade cambiate: la via principale ora è chiusa al traffico, ma le nuvole in cielo sono le stesse, le stesse di quando era bambina.
Si ferma davanti al manifesto che vuole rappresentare l’evento culturale di quelle giornate in città.
– Il profilo urbano è simile a quello della cittadina dove vivo adesso – nota osservando l’immagine – manca solo il mare, e mi pare un po’ inquietante questa testa tra le nuvole basse che trasformano il viso femminile in uno strano personaggio con pizzo e parrucca.
– Allora, ti piace? – Lisa distoglie lo sguardo dal cartellone per rispondere a una voce familiare e stringere l’amico in un abbraccio fraterno.
– Gianni! Non hai risposto alla mia lettera, ma ero sicura saresti venuto!
– Come posso rispondere a una lettera? Io rispondo a un messaggio, forse a un twit, o a una e-mail…
– Sai quanto mi piace scrivere a penna anche se uso la biro, chiudere la busta, andare dal tabaccaio, incollare il francobollo e accompagnare le mie missive fino alla buca delle lettere – lo interrompe Lisa – ma ti perdono, perché anche se cerchi di tenerla nascosta dietro la schiena, vedo che hai la custodia del sax! e quindi suonerai. Yarik sarà contento!
Yarik è il filo conduttore dei suoi racconti. Lisa ha chiesto aiuto a Gianni perché vuole presentare la storia del giovane musicista attraverso alcuni brani di John Coltrane, l’idolo musicale del suo amico lontano, costretto a smettere di suonare per tornare al suo paese in guerra.
Lisa ricorda bene lo studente appassionato, risente i motivi dolci, orecchiabili, che lui suonava sotto i portici della città. Le tornano in mente momenti belli e malinconici allo stesso tempo.
– Dobbiamo arrivare un po’ prima – la sollecita Gianni – così ho ancora il tempo di farti sentire i pezzi che ho scelto. Io so le cose che piacciono a te.
E a lei piace pensare che le note di un sassofono accompagneranno la storia di Yarik e di altri giovani come lui. Sarà il modo migliore per coinvolgere la gente.
– Dai, comincia a suonare!